Apporti dei lettori: Brevissimi testi tradizionali

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    - "Viaggio in Uganda" di Maria C. Morabito
    - "In nome del figlio" di Stefania Casella
    - "Lo sciamano e il monaco si incontreranno all'ombra della palma" di Pierfranco Bruni
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    Viaggio in Uganda
    di Maria C. Morabito

    Una sera qualunque, il tuo bacio sulla mia guancia, l’attesa del tuo ritorno.
    L’asfalto bagnato un tonfo, un incidente come tanti e la tua vita è rimasta li, come petali di rosa sparsi dal vento all’improvviso.
    Quando quella notte, qualcuno bussò alla porta, ebbi come un sussulto nel petto, Poi la notizia della tua scomparsa, Il mio corpo sul pianerottolo riverso in uno spasmo di pianto mai venuto fuori.
    Ora Antonio, sei un rincorrersi di frammenti, ricordi che spesso cerco di ricomporre, ma rimangono spezzati da un qualcosa di cui non sono mai riuscita a dargli un senso.
    Come il susseguirsi dei giorni uno dopo l’altro. Non potevo stare ferma, dovevo raggiungerti, dirti tutte le cose che non ti avevo ancora detto, abbracciarti figlio mio.
    Chissà perché l’idea di un viaggio lontano placava la mia anima dandomi quasi la consapevolezza di ritrovarti da qualche parte, un pensiero sempre frequente, un tarlo che mi impediva di concentrarmi sul lavoro o adempiere a miei doveri quotidiani.
    Partii in una stagione fredda portando con me il necessario, lasciai a casa anche tuo padre oramai arreso alla mia decisione, sperava che quel viaggio mi avrebbe cambiata, o almeno fatta ritornare a casa più serena.
    Non so quante ore viaggiai, nel frattempo rimasi sempre ad occhi chiusi. avvertivo ogni tanto il lieve movimento dell’aria, il vociare silenzioso dei passeggeri, ma io non ero seduta al mio posto, viaggiavo insieme a te, per quei mondi sconosciuti e fantasiosi nella mia mente. Ritornai in me stessa all’atterraggio in Uganda, dovevo spingere i bagagli, camminare, uscire dall’aeroporto, trovare un albergo, per riposare, perché nonostante il vuoto della mia assenza, bisognava vivere la realtà.
    Alloggiai in un ostello, una stanza confortevole, con una grande finestra dove si intravedevano appena da lontano delle montagne. Il giorno dopo iniziai a girovagare per le strade, poi con un pulmino attrezzato per il safari, mi avrebbe dato l’opportunità di vedere il mondo circostante e visitare i villaggi della zona.
    Non facevo altro che pensarti Antonio, spingermi così lontana mi dava la sensazione di aver superato qualche barriera, eppure non trovavo pace.
    Attraversando un villaggio ti ho visto, o forse ho creduto di vederti, la tua andatura, i tuoi capelli ricci, il tuo sguardo rivolto verso di me… urlai al conduttore del pulmino di fermarsi, dovevo scendere, correre, per dirti: la tua mamma è venuta a prenderti. Le persone mi guardarono spaventati, ma rimasero seduti, mentre io inciampando nei loro piedi chiedevo scusa.
    Una volta a terra mi sentii come un’aquila che approda nel fango, le mie scarpe erano immerse in una melma marrone, la pioggia aveva intriso il terreno.
    Ti avevo perso con gli occhi, ma poi ti rividi, eri inseguito da tanti bambini di colore, ti prendevano per mano, ti girasti ancora una volta e scomparisti tra i colori di quel tramonto mai visto prima.
    Non lo so, se eri stato una visione o la mia mente oramai instabile mi aveva fatto vedere cose non vere, so soltanto di essere rimasta impietrita senza riuscire a correrti incontro ed abbracciarti come avrei voluto, ma in qualche modo mi hai raggiunto tu perché quei bambini si avvicinarono incuriositi tirandomi dai vestiti e fu in quell’istante che vidi la profondità dei tuoi occhi, Tu eri li, nei volti di quei bambini la quale con la mano tesa mi chiedevano qualcosa, nella tasca avevo poche caramelle che porto sempre con me da mettere in bocca ogni tanto, li lanciai in aria quasi a volermi liberare da quella cerchia di bambini e rimanere da sola con i miei pensieri, capire cosa mi stava accadendo. I bambini, si buttarono per terra nel fango, per raccogliere le caramelle colorate per poi ingoiarle senza masticarle, in tanti rimasero senza una caramella, e continuarono a tirarmi dai vestiti, sorrisi, non mi sentivo più da sola. Ero certa oramai, kuffu, era il villaggio dove mi sarei trasferita, perché li avevo trovato la mia dimora, quella mai avuta da nessuna parte. Al ritorno del pulmino su quella via, ripresi il mio viaggio verso l’ostello, ma sarei ritornata nel villaggio il giorno dopo, e dopo ancora non so per quanto tempo.
    Dopo alcuni giorni, telefonai a tuo padre dicendogli di raggiungermi perché stavo meglio, e forse anche lui avrebbe fatto bene vedere quello che io avevo visto, perché era distante mille miglia dalla vita quotidiana vissuta fino a quel fatidico giorno.
    C’è stato un altro momento in cui ho creduto di scorgerti, è stato quando visitando una scuola che non era una scuola ma una baracca di canne.
    Ti vidi accanto a quei bambini composti, eri al secondo banco con quel grembiule pulito intento ad imparare, intento a muovere i primi passi nell’apprendimento scolastico.
    I bambini al tuo fianco, non avevano grembiule, erano vestiti con qualche pezzuola messa alla rinfusa, incuranti delle parti che andavano a ricoprirli.
    Con l’arrivo di tuo padre, avrei messo in atto il mio progetto: costruire una scuola a Kuffu per tutti quei bambini, infatti fu così, e da un mattone dopo l’altro nacque dal fango il cemento, le basi solide di una scuola dove i bambini finalmente possono avere all’interno dei banchi su cui posare i loro quaderni arrivati dall’Italia dalle poche persone mosse dalla mia iniziativa, mi ero fatta portavoce di una povertà mai conosciuta, piccola e nello stesso momento grande davanti ai miracoli della vita, perché quello era stato un miracolo per me.
    Tuo padre ed io siamo affezionati a quei bambini mai lasciati da allora, anche lui ha trovato una serenità che non conosceva, se pur ti abbiamo perso, ora siamo genitori non di un solo figlio ma di tanti, bisognosi della nostra presenza e della nostra provvidenza.
    Le donne del villaggio, con i tessuti che ho fatto spedire iniziarono a ricoprirsi il corpo, apparivano come delle modelle imperfette fasciate di colori, ma tanto solari nel donarci un sorriso, mostrando i loro denti bianchi come in una pubblicità di dentifricio, nonostante la povertà e la miseria, Dio, a loro ha dato il sorriso. Noi che viviamo di tanto non abbiamo mai abbastanza, loro hanno tutto, anzi con il nostro aiuto era anche troppo, si riscontrava nei loro gesti di ringraziamento ogni istante. Dopo mesi ritornammo in Italia, ma la nostra casa era vuota senza di te, non aveva mura ad accogliermi e proteggermi, almeno per me, il mio cuore era rimasto li, perché era li che in qualche modo ti avevo ritrovato.
    Formai un’associazione con poche persone, iniziai a darmi da fare, facendo raccolte fondi, mettendo in atto altri progetti per un futuro migliore da regalare a quel villaggio, ed i risultati non tardarono ad arrivare. Pochi euro per un manciata di riso e sfamare quelle persone, per comprare delle sementi di granturco da donare alle donne e farle spargere su quei campi affinché un giorno avrebbero potuto fare un buon raccolto, pochi euro, per adottare uno di quei splendidi bimbi a distanza e dargli una dignitosa vita, vestirli, mettergli ai piedi le scarpe farli volare di felicità.
    I mesi che adesso mi separano dall’Uganda e dal villaggio di kuffu, sono pieni, ti penso Antonio, ed ogni cosa che faccio lo faccio per te, per tutti quelli che vivono laggiù. Al ritorno in quella terra arsa dal sole e bagnata allo stesso momento da tanta pioggia, si unirono a me altre persone, e fu davvero cosa gradita, perché mi hanno aiutata a prendermi cura personalmente di più bambini.
    Ora hanno più maestre nella scuola che porta il tuo nome Antonio, i loro grembiuli sono di colore rosso, hanno calze e scarpe su quei piedi screpolati. Le donne fanno sempre un buon raccolto, e con la farina del granturco impastata un ottimo pane, il riso arriva in grandi sacchi, una manciata ciascuno per non fargli soffrire la fame, in più sono tanti i bambini adottati a distanza, quindi oltre alle esigenze quotidiane c’è la possibilità che i bambini vengano curati.
    Vedi Antonio? I viaggi della nostra vita sono tanti, quelli capaci di farci cambiare il nostro percorso, dipende soltanto da noi se vogliamo scoprirli e viverli. ed io pur continuando a prendere un aereo non so quanto tempo dovrò attendere ancora prima di capire quale strada tu hai preso per non fare ritorno, perché è soltanto dal tuo viaggio che non si ritorna a casa.
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    In nome del figlio
    di Stefania Casella

    “Lascialo andare o lo perderai, lo sai”. Lo so, certo, dovrei saperlo come credi di saperlo tu. Tutti crediamo di sapere in realtà lo crediamo, lasciarlo andare, come hai fatto tu? No non credo che lo farò, credo che lo accompagnerei ovunque, anche all'inferno. Mio figlio io lo accompagnerei ovunque. Io. C’erano tre bicchieri in tavola uno per ognuno di noi, le chiacchiere di sempre scivolate sulla partita avanti alla quale avevo trovato la sedia libera e dovevo spostare la testa a destra e sinistra per lasciarli guardare. Era divertente, quando eravamo una famiglia ancora.

    Filippo ha 17 anni e la faccia da bambino, i capelli arruffati e il sorriso improvviso. Il sorriso di Marco suo padre, le sopracciglia arcuate che gli danno un’aria severa quando vuole, quelle le ha prese da me, meno la voglia di severità. Alzava lo sguardo dal piatto per commentare un passaggio, un fallo, distratto prendeva la bottiglia di vino lo vedevo allungarsi verso un bicchiere con la coda dell’occhio, faceva per avvicinarla al suo, poi guardandomi istantaneo la avvicinò alla mia mano che si allungava sull'orlo del mio. Di colpo i nostri sguardi si somigliarono. “Non bevo, lo sai” lo dissi con una voce ferma che non aveva troppo senso, stupiva anche me, sentii che avevo irrigidito lo sguardo, lo sentii dal suo sguardo che si corrucciò. “Che cavolo tutti bevono un sorso di rosso a tavola, fa bene, solo tu devi essere sempre così drastica? Ti toglierebbe quella faccia pallida, vero pà?”. Pà, come sempre si limitava ad alzare un angolo di labbro senza parlare. Quando eravamo ancora una famiglia.

    Erano passati mesi da quella sera Marco poche sere dopo varcava la soglia con la valigia a fianco, usciva dalla mia vita per sempre dopo anni di infelicità coniugale. Mi sentivo in colpa per Filippo così legato a suo padre tanto da non avere ancora il coraggio di affrontare il discorso, sempre più silenzioso, sempre più isolato. Probabilmente ce l’aveva con me. Erano giorni confusi di vita da riadattare, il lavoro da riprendere per far quadrare i conti, la solitudine nuova, non che prima fosse tanto diverso ma sapere che oltre noi due nessuno avrebbe lasciato scorrere l’acqua in bagno, acceso la tv, imprecato per la mancanza di film interessanti, o interessanti schifezze da organizzare per la sera, era molto più deprimente. Dormivo male, riprendere i turni di notte in ospedale non era stato facile. Casa sembrò diventare una trappola alla quale ritornare, buio e solo la lucina del cellulare di Filippo dietro la porta della sua camera.

    Sembrò una boccata d’ossigeno vedere che piano, ritornava a riprendere contatto con gli amici, ricominciava ad uscire. Ma senza misura si passò in breve da un eccesso all'altro. L’orario che cominciava ad allungarsi e spesso dopo mezzanotte ancora dovevo girare per casa in attesa dei suoi ritorni. Quando di notte non ero al lavoro sveglia, ero comunque sveglia a vagare per casa guardando le lancette. A lui trovarmi sveglia non faceva né caldo né freddo anzi nervoso schizzava via senza neanche alzare la testa. Fingevo di essermi alzata per caso e le prime volte quei ritardi non li feci pesare. Poi le cose cambiarono. Alzarmi di notte, al buio, toccare il suo letto intatto, telefonare senza sentire risposta, mi stava sfuggendo e non sapevo come dargli un limite. Provare a parlarne equivaleva ad un “Ti lamenti sempre? Dicevi non esci mai, ora dici che esco troppo, metti in ordine il cervello, mamma”. Come dargli torto, in ordine il cervello, fosse stato facile…

    Raccattavo le sue cose in camera come sempre, quando una mattina sotto una pila di maglioni vidi una bottiglia di liquore a metà. La prima volta che intercettavo il primo dei segnali che fino a quel momento non avevo intuito. Non avevo fatto caso allo sguardo stanco, al pranzo o alla cena a cui sfuggiva, ai discorsi che non avevamo tempo di fare. All'odore che si portava addosso che non potevo non aver capito. Sentii un attimo di sbandamento come se l’onda di un ricordo mi avesse schiaffeggiata per riportarmi a terra, ad una realtà che non avrei voluto vedere. C’ero io, c’era lo sguardo di mia madre che non capiva, che non sapeva. C’era una strada che stava per ingoiarmi. C’era una porta chiusa in faccia e seduta per terra sulle scale, aspettare che si aprisse e vagare per strada di notte prima che mi raccattasse mio fratello per poi litigare con lei, per farle capire che certe pieghe, certe piaghe, non le curi chiudendo una porta in faccia alla realtà. Avevo commesso l’errore di aver perso la testa per una mente sballata che passava la vita senza mai un attimo di lucidità. Bevevamo forte, non so dove prendesse i soldi per le bottiglie, per il fumo, per tutto quello che usava costantemente, quando lo intuii e vivevo praticamente in casa sua da quando lei mi aveva definitivamente buttata via di casa, anche la sua porta era rimasta chiusa.

    Avevo appena diciott'anni aspettavo un bambino, forse per questo mi riprese con lei. Forse solo per questo, quel capitolo buio era stato cancellato. Cancellato, archiviato nel dolore, nella dimenticanza. Forse per questo non volevo riconoscere nel viso disfatto, nel puzzo acido che sentivo su quelle magliette, quel passato che ritornava. Non era un dispetto del destino, era capitato e basta. Poi tutti bevono, poi… Uscivo di casa senza guardare l’ora, Filippo ormai maggiorenne non chiedeva, non parlava, usciva e basta. Chiuso con la scuola, chiuso con me, viveva per la sua chitarra sulla quale più di una volta l’avevo visto accasciarsi. Uscivo di notte a caccia come un animale in cerca di una preda, io cercavo mio figlio col terrore di vederlo, di saperlo in un angolo di una panchina con le facce perse di amici sfatti o strafatti come lui. Un anno solo e una discesa così veloce da non poterci credere.

    Bere non è assumere un acido, non è il buco, non è la coca, bere non rassomiglia alla droga che sai ti sballerà fino ad ucciderti è l’illusione di un piccolo diversivo, di un passaggio che ti fa solo divertire un po’, fino a che non puoi più smettere e non è più divertente. Riportarlo a casa significava combattere ogni volta contro la sua faccia da demone, avere paura di tuo figlio è così innaturale, da sentire che ti si strapperà il cuore che vorresti strappare a lui per la rabbia che ti sale, che ti rende impotente. Se dicevo “Sei ubriaco, da fare schifo” diceva “Sei fuori, sono più lucido di te” e non c’era verso di fargli capire che bere tanto da dimenticare di tornare a casa non era più tollerabile. Controllavo le bottiglie al ritorno dal lavoro, avevo preso l’abitudine di segnare con un pennarello l’altezza del liquido per sapere se e quanto ne avesse bevuto, usciva quando rientravo, ritornava solo quando sapeva che sarei uscita. E dimagriva a vista d’occhio, gli occhi affossati i segni sulla pelle, guardavo la sua discesa, le sue trasformazioni inebetita, come un automa che non sa prendere l’iniziativa.

    Cosa diavolo stava succedendo. Era l’alcool che devastava il suo corpo, una quantità troppo alta per essere lo sballo di un momento di divertimento. Nella testa rimbombava la frase di madre già sentita mille volte “Lascialo andare lo perderai” Cercavo un significato, un senso. Mentre mi rintronava dovevo essermi addormentata, sognavo una casa, una tavola, una famiglia, una finestra Filippo che mi guarda mi sorride, si volta guarda altrove apre la finestra e si arrampica per saltare e ritorna una voce che dice “Lascialo andare, lo perderai” lui mi guarda mentre barcolla, in bilico, cerco di avvicinarmi e le gambe pesano sembra di essere immersi sott'acqua impossibile muoversi, mi allungo lo afferro lo tengo forte. Mi sveglio col batticuore sommersa di sudore e terrore mi alzo in trance, la sua stanza è vuota, fredda la finestra aperta, mi coglie un brivido, arrivo al bordo affacciandomi disperata, poi il pensiero lucido ritorna, non è rientrato.

    Mi vesto a caso, in fretta il jeans sui pantaloni del pigiama, la faccia bollente del sonno, del piumone del calore della notte si raggela fuori dal portone, vago come in una strada da allucinazione in un tempo sonnolento, sospeso, vado verso la metro, la stazione dove si ritrovano i ragazzi di solito, guardo le mie scarpe un passo dopo l’altro e sento la stanchezza arrivare agli occhi, mi fermo piango, non vedo la strada, inciampo. Filippo è fermo su una panchina intorno bottiglie, due forme disperse di amici come lui, a terra una siringa, tremo lo raggiungo scuotendolo, tirandolo di peso, lo avrei ammazzato. Si tira su come se provenisse da un lunghissimo viaggio, sorride con la faccia disperata, gli mollo uno schiaffo e i suoi amici mi guardano inermi. “È tua? dimmi, quello schifo lì, è tua?” Urlo, urlo senza freni, senza pensare, piangendo senza controllo. Mi grida “No non è mia, non è mia” ma non lo sento più, non sento niente, sono stanca, sono solo una madre stanca, una donna stanca, giro le spalle, cammino sento la sua voce dietro di me, la lascio sbattere sui lampioni, sui vetri non mi ferma, non posso farcela, lo sento urlare ma sono lontana sono mia madre, non sono più io, sono la figlia che voleva essere aiutata, il figlio che cercava la mano per non cadere di sotto, ingoiata in un imbuto che ha messo in moto le gambe per portami via da lì, da quella notte, da quelle verità che non vuoi vedere. Mi raggiunge alle spalle “Non è mia te lo giuro, ho bevuto sì, ho bevuto, ma ti giuro non mi faccio, mamma ti giuro non l’ho mai fatto. Ti giuro smetto, te lo giuro”

    Resto di spalle un attimo infinito, lo abbraccio di fiducia, di amore, restiamo abbracciati un momento interminabile di giorni e notti di sudore e febbre e vomito e promesse. “Come hai fatto a capire… Cioè, che forse… Che non era… Che stavo esagerando?” “Non lo so Filippo, non lo so o forse sì, solo perché io, ero come te. Ma questa è un’altra storia…” Mi chiamo Giulia sono qui con mio figlio, sono, sono stata alcolista, oggi sono qui con mio figlio, voglio aiutarlo. So che mi aiuteranno. Sono qui, sono una madre che vuole aiutare suo figlio. Gli tengo la mano arrivo all'inferno lo tiro fuori, risalgo con lui non lo lascio dietro, non lo lascio da solo. Io.
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    Un suggestivo e originale racconto di Pierfranco Bruni

    LO SCIAMANO E IL MONACO SI INCONTRERANNO ALL'OMBRA DELLA PALMA
    di Pierfranco Bruni

    Osservo le parole volare come le foglie. Le foglie volano ma lasciano sempre un profumo di distacco.
    Si vive di distacchi.
    Forse di lontananze.
    Abbiamo bisogno del ricordo per riappacificare le nostre emozioni.
    Ferite strappate lacerate.
    Chi è sceso nel dolore più profondo può catturare ogni dettaglio.
    Non comprendere.
    La comprensione è l’inutile dire.

    Io da anni vivo tra le sabbie camminate dallo sciamano e le parole, come foglie, del monaco che cerca nella sabbia del deserto l’ascolto degli orizzonti.
    Ho amato. Sono stato amato.
    Ho perduto amori. Ho lasciato che gli amori mi perdessero.
    Mi sono perso e ho perso.
    Mi sono ritrovato ed ho trovato.
    Ma non ho mai tradito anche se il tradimento è lungo le mie strade…
    Io ho difeso Giuda e difendo Giuda perché non ha tradito. È stato tradito.
    Non difenderò mai Pietro perché si può anche tradire ma mai rinnegare.
    La differenza tra i due è importante.
    Giuda o Pietro?
    Ho dedicato libro su questi volti e su queste maschere.
    Giuda è stato tradito per tradire. Pietro ha rinnegato. Ma non voglio ripetermi perché nella mia pietra d’Oriente c’è la mia esistenza che traduce pensieri.
    Ora sono altrove.
    Mio padre mi ha insegnato che bisogna anche far finta di ascoltare e restare creativi nel proprio silenzio.
    Mia madre mi ha insegnato sempre a guardare negli occhi chi dice di esserti amico.
    Ho messo insieme i due codici ed ho capito che le ali delle aquile conoscono la verità.
    Le aquile.
    Seguo il monaco che ha la luce del Tibet.
    Lo sciamano mi propone di non giudicare mai e vivere il distacco.

    Lo sciamano così mi ha detto:
    “Ho troppo avuto. Ho avuto abbastanza. Per questo oggi ho poco. Il giusto per non essere abbastanza. Ma il mio viaggio è tra la foresta e gli spazi liberi. Perché la foresta e la libertà vivono nella mia anima. Ognuno di noi dovrebbe fermarsi in un angolo di tempo e rubare al tempo tanti silenzi. E riflettere. Il viaggio non è semplicemente camminare”.

    Custodisco questo suo dire e l’ho inciso nel tatuaggio del mio cuore.
    Un giorno una donna incontrata in Cappadocia mi ha regalato una pietra e mi ha sussurrato:
    “Bisogna saper raccogliere le memorie distratte nel silenzio di una stella e camminare per tutti i mari e i deserti che abitano la vacanza della nostra anima. L'amore è anche in questa distrazione”.
    Poi è sparita.
    Mi sono trovato con la pietra tra le mani e una pioggia di terra sul mio capo.
    So che bisogna trovare sempre una propria dimensione ma portando nello sguardo la sincerità. Non ha importanza se gli altri hanno la coerenza della fedeltà. L’importante è che io resti dentro questa coerenza.

    Si ritroveranno lo sciamano e il monaco. Non so dove.
    So che si ritroveranno ed io racconterò il silenzio dei loro sguardi e la voce del loro sorriso.
    Più volte mi hanno parlato.
    Nelle notti.
    Nelle linee del dolore.
    Nel cerchio magico dei ritorni.

    Il monaco venne a trovarmi in un’ora tra l’alba precipitata in mare e il mare che cercava di nasconderla per dirmi:
    “Viviamo un viaggio di emozioni ferite. La voce non ha urli o saette. Ha il fruscio di un volo d'aquila. La vibrazione di un silenzio. Accogli ciò che senti e mai ciò che vedi negli altri. Ascolta ciò che il vento ti porta e mai ciò che è oltre il vento. Il tramonto sarà una nuova Alba”.

    Ancora un linguaggio tra simboli.
    Come grani di un rosario.
    Ho vissuto la danza del fuoco. Ho pregato regalando nel segno del “namastè” la mia attrazione.
    Non so se mi cercherà la donna incontrata in Cappadocia.
    Ha senso?
    So che vedrò lo Sciamano, il Monaco e Gesù tra le braccia della Maddalena.
    Poi potrei anche impazzire sulle foglie che il vento trasporta tra i luoghi dell’assenza e le sconfitte che lasciano ferite.
    Mio padre nell’ultimo istante, quando il fiammifero sulle sue labbra non si è spento, ha chiamato: “… Maria…”.
    Mia madre Maria se ne è andata come una farfalla nel vuoto di un’assenza.

    Incontro spesso lo sciamano e il monaco.
    Lo sciamano mi sveglia.
    Il monaco mi saluta di notte.
    Nella mia casa di paese, dove il tempo non corre più, dialogo con i fantasmi che sono la mia luce, le mie ombre, il mio sempre.
    Il tempo è lì che invecchia.
    Ed è lì, sotto l’antica palma, che si incontreranno lo Sciamano e il Monaco e la Maddalena con Gesù.
    Le loro voci avranno l’eco del deserto.
    Una donna venuta dal mare, con gli occhi di luna, ascolterà.

    Edited by pierpaolo serarcangeli - 28/4/2016, 14:06
     
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