Articoli della Direzione: letteratura sperimentale in Italia

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.  
    .
    Avatar

    Advanced Member

    Group
    Administrator
    Posts
    1,231
    Location
    ROMA

    Status
    Offline
    ==============================
    Nota: gli articoli sono in ordine cronologico dall'alto verso il basso; pertanto, i più recenti sono in fondo alla pagina
    Articoli e illustrazioni: (in giallo l'articolo o gli articoli più recenti)

    - Quattro foto di autori italiani.
    - Logo del Gruppo '63.
    - Giuliano Gramigna: biografia e una poesia.
    - Due esempi di incipit narrativo sperimentale - Giuseppe Bonura
    - due esempi di incipit narrativo sperimentale (seguito) - Mario Miccinesi
    - il male oscuro della narrativa sperimentale
    - Nel centenario della morte di Umberto Boccioni
    - Il mutamento della lingua e dello stile fra tradizione e modernità
    ==============================


    Tre autori sperimentali italiani: Giorgio Manganelli, Giuliano Gramigna (in una foto giovanile) e Nanni Balestrini. nell'ultima foto:ancora Nanni Balestrini con l'editore Giangiacomo Feltrinelli.

    SPERIM8 SPERIM5download SPERIM7download SPERIMENTAimages


    * * * * * * * * * *



    Il logo del Gruppo '63, di cui parleremo in seguito qhIqM2Ns (cliccare per visionare il logo intero e ingrandito)


    * * * * * * * * * *



    GIULIANO GRAMIGNA. Sperimentale a tutto campo: narrativa, poesia, saggistica
    (di Pierpaolo Serarcangeli)

    Mi piace dedicare il primo articolo a Giuliano Gramigna, uno scrittore che mi ha sempre affascinato. Quasi tutti i suoi romanzi furono pubblicati da Rizzoli, nella Collana "La Scala", Allora avevo appena terminato gli studi e ancora non lavoravo; però riuscii ugualmente a comprare i suoi libri e rimanevo stupito dalla sua scrittura, così all'avanguardia e originale.


    RNweb4Ss

    Giuliano Gramigna (Bologna, 1920 – Milano, 2006). Ha lavorato come critico letterario al “Corriere della Sera”. Autore di diverse raccolte di poesia: “Robinson in Lombardia”, 1967; “Il terzo incluso”, 1971; “L’interpretazione dei sogni”, 1978; “Es-o-Es”, 1980; “Annales”, 1985; “Coro, 1989; “L’annata dei poeti morti”, 1998. Ha pubblicato diversi romanzi: “Marcel ritrovato”, 1969; una ricerca di se stesso e dell '"altro" che si sviluppa tra Milano e Parigi; “L’empio Enea”, 1972; sul problema del figlio che diventa "guida" e sostegno del padre, parafrasando il mito di Enea che fuggì da Troia portando sulle spalle il padre Anchise; "Il testo del racconto", 1975; sulla possibilità-impossibilità di creare la trama di un racconto; “La festa del centenario”, 1989. Tutte queste opere di narrativa, hanno un'impronta prettamente sperimentale. Ha pubblicato diversi saggi: “Il gran trucco”, 1978; “La menzogna del romanzo”, 1980; “Le forme del desiderio”, 1986. Ha collaborato alla della rivista “Anterem” ed è stato membro del Comitato d’onore del Premio Lorenzo Montano, curando per diciassette anni le prefazioni alle opere vincitrici della sezione dedicata alle raccolte inedite.

    7q5FWSYs un romanzo di Gramigna: "Marcel ritrovato", Rizzoli (cliccare sull'immagine per ingrandire)

    Di Gramigna pubblichiamo una poesia di chiara impronta sperimentale, dedicata ad Ezra Pound.

    La visita a Ezra

    Non the Old Maestro
    enobarba enorme egoista e sublime
    intorno a cui si affollavano a rispettosa distanza
    gli stupidi ragazzini intimiditi
    – che fu amato da Olga-
    ojos claros in un arruffo di pel rosso
    e scrivo come in un testamento
    temendo che non passerò la notte
    Ho inciampato due volte per le strade di Milano
    e una voce mi dice
    Nun me fa’ la terza
    Ezra appuntò i nostri nomi
    rispettosamente su cartoncini colorati
    che ci innalzavano (non lo sapevamo)
    al suo paradiso
    e non osavamo articolare
    il nostro inglese di scolari
    Lui venuto in pigiama e pantofole heroico
    a passi sbiechi per il corridoio
    a farci fare il sogno
    d’incontrare la poesia. Come camusi! come sciocchi!
    ignari di ciò che saremmo stati anzi non saremmo
    mai stati quantités négligeables
    che mancavano al conto
    (ora so che quel pomeriggio
    è un cardine della mia vita)

    *

    Sono felice mi manda a dire
    (o almeno io leggo così in quel suo verso).
    Ma non mi rallegro
    lo invidio lo detesto
    perché non è ottenebrato
    come me.
    Mi vergogno di queste righe
    non perché siano belle o brutte
    ma perché cade anche l’acre
    resistenza alla emozione.
    non è una storia tragica e asciutta
    ma l’insopportabile guaito
    della bestia domestica.

    (Tratta da., "Quello che resta", Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2003)

    * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *



    DUE ESEMPI DI INCIPIT NARRATIVO SPERIMENTALE
    (di Pierpaolo Serarcangeli)

    GIUSEPPE BONURA

    Prima di iniziare un discorso più vasto, che ci porterà ad esaminare l'iter della narrativa sperimentale italiana tracciandone nascita, evoluzione e ...ripiegamento verso stili più consueti e accessibili, vogliamo sottoporre ai lettori, a mo' di esempio, due incipit di romanzi sperimentali.

    Il primo riguarda un'opera di Giuseppe Bonura, "La pista del minotauro" (Rizzoli, 1970).
    Bonura, nato a Fano nel 1933, è scomparso a Milano nel 2008. Ha pubblicato numerose opere di narrativa. Oltre a quella di cui ci stiamo occupando, ricordiamo "Il rapporto", "I custodi del silenzio", "La doppia indagine", tutti editi da Rizzoli. "La doppia indagine", fra l'altro faceva parte di una collana, "Il rigogolo" che varò appunto l'editrice Rizzoli nel tentativo, ben presto naufragato, di proporre il filone della narrativa "gialla" con firme i autori italiani (tra cui Enrico Vaime e Vincenzo Mantovani). Sempre di Bonura segnaliamo ancora "L'adescatore " e "La vita astratta", pubblicati da Mondadori. Ma Bonura, oltre che narratore e saggista, è stato sempre un acuto e attento criitico letterario.

    JhZnklws - clicca sull'immagine per ingrandire -

    "La pista del minotauro" aveva sul retro di copertina una scheda di presentazione, guarda caso, di un altro critico e autore di netta impronta sperimentale, Giuliano Gramigna, di cui abbiamo già parlato. Gramigna, in quell'occasione, sottolineava appunto l'impossibilità (determinata e voluta dall'autore) di raggiungere una trama organica, un plot organico e organizzato, insomma una configurazione narrativa compiuta e - diciamolo pure - di stampo tradizionale.
    Al lettore, in questo romanzo, vengono negati spesso punti di riferimento, continuità della storia, tracce da seguire. Già all'inizio del romanzo appaiono evidenti i germi del disorientamento, la disgregazione del personaggio e la discontinuità dell'azione. Riportiamo per intero il primo capitolo, caratterizzato da brevissimi flash numerati. Le pagine successive avranno una connotazione meno ardita, ma sempre in sintonia con la narrativa prettamente sperimentale.

    TOPOGRAFIA DELL'ANTEFATTO

    1.
    Ti introdurrai cautamente.
    Esplorerai la tua vita a tentoni, brancolando, esitando, vagabondando per un territorio fittizio, terminato, sconfinato.
    A volte ascolterai il silenzio.
    Anche ti assorderanno clamori di sensi correnti.
    Soccomberai.
    Ti rialzerai, riprenderai a stento il cammino, questo cammino scelto fuori di te da te e che non ha mete certe.
    Cederai di nuovo, affascinato da personaggi noti, da personaggi vuoti. In ogni istante ti renderà agguati la seduzione delle dolci abitudini.

    2.
    Intanto Ippolito sia il tuo nome, ma nessuna mano descriverà con esattezza il tuo volto.
    fino alla fine, oltre la fine, rimarrai un puro segno, una rapida traccia.

    3.
    Eppure parleranno di te. condurranno interrogatori insistenti. Deambuleranno da una città all'altra, da una casa all'altra, da una stanza all'altra. e dappertutto l'identica risposta: cercate altrove.
    Sì, ma dove?

    4.
    Dove tu sei e non sei.

    5.
    Dipanerai il filo della storia, della tua storia. Ci saranno intrecci espressioni confessioni effusioni confusioni. Sospetteranno frodi. Ti abbandoneranno lungo il tragitto, in un punto qualunque, su una frase qualunque.
    Esistono rischi peggiori.

    6.
    Ma qualcuno forse supporrà che la tua vicenda priva di valore celi dopotutto una tragedia. No: la tragedia dice subito il proprio nome.
    E tu non hai nome, Ippolito.

    7.
    Hai solo l'orma di una voce.

    8.
    Salirai. Più spesso scenderai. eviterai tracciati piani, litorali di sabbia e di ghiaia, rettifili d'asfalto. Hai la vocazione dell'abisso.
    La vocazione è un vizio.

    9.
    L'ha detto chi ora t'induce a intraprendere il viaggio.

    10.
    Simulerai d'assecondarlo. Lo guiderai traverso significati inequivocabili. Chiamerai pane il pane e vino il vino. Ti profonderai in scuse se pene e vene inquineranno il tuo linguaggio chiaro. E' arduo imbrigliare il destino, questo destino che liberi adesso, tremando e ridendo, come un'avventura.
    La ricerca è cominciata e la tua immobilità decisa.

    Passiamo ora all'incipit di un romanzo di Mario Miccinesi (continua)

    DUE ESEMPI DI INCIPIT NARRATIVO SPERIMENTALE (seguito)
    (di Pierpaolo Serarcangeli)

    MARIO MICCINESI

    Nato a Firenze nel 1923, ha insegnato storia e filosofia nei licei fino al 1964. Nel 1965 ha fondato, assieme a Fiora Vincenti, una accreditata rivista letteraria, "Uomini e Libri", che ha diretto per circa trent'anni. Per l'editrice Mursia ha seguito e curato diverse collane di divulgazione letteraria e di critica. Ha pubblicato diversi libri di saggistica. Tra la sua produzione narrativa desideriamo ricordare: "Sabotiamo il sistema", 1968; "Cancer oecumenicus", 1971; "Tra mine e siluri", 1974; il custode della legge", 1979; "Proibito sognare, 1988.

    inp9wI5s (copertina di "Proibito sognare". Cliccare sull'immagine per ingrandire)

    q1n5fGqs (un libro della collana" invito alla lettura", dall'inconfondibile copertina gialla, che Miccinesi dirigeva per Mursia. Cliccare sull'immagine per ingrandire)


    Il brano che riportiamo è tratto da "Cancer oecumenicus", edito da Mursia. Il romanzo è ambientato in una casa di cura per psiconevrotici ed il protagonista è un uomo malato di cancro. La malattia, dalla soggettività del singolo, diventa una dolorosa denuncia tesa a dimostrare come sia improbabile e forse immeritata la sopravvivenza nella società, quasi che un "cancro universale" sia preposto a distruggere tutto, persino le doti inventive e le capacità artistiche, visto che il protagonista è anche uno scrittore consapevole, ormai, che anche l'arte sia destinata a perire, sopraffatta dall'èra tecnologica.
    L'apertura del romanzo è volutamente elaborata fino all'estremo, quasi volesse respingere il lettore attraverso un gioco stilistico e verbale di difficile interpretazione. Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscere, almeno al telefono, Mario Miccinesi e se la memoria non falla, gli sembra di ricordare che l'autore avesse compiuto studi di medicina. Sempre l'estensore di queste note ha studiato, anche se non a fondo, neuroanatomia e anatomia generale, quindi riesce meglio di molti altri ad afferrare definizioni, nomi e reazioni che a un profano in materia possono sembrare addirittura indecifrabili. Siamo nel pieno di una scrittura sperimentale, appunto. Ma è una scrittura riservata all'autore e a pochi altri? Questo aspetto lo affronteremo presto appena avremo occasione di delineare un panorama generale della letteratura sperimentale italiana.
    miccinesi1 (cliccare sull'immagine per ingrandire)

    Ecco quindi l'inizio del romanzo:

    Non c'ero, ci sono. Il lento deflusso ipofisario, sbloccando le grandi vie spinotalamiche verso la grigia parete corticale, ha irradiato un blando gassoso chiarore coscienziale subito incendiato dall'ago rovente della riemersa nozione del tempo.
    Approssimativamente per la trentamillesima volta si è aperta una nuova fase ergotropa nel sinusoidale avvicendarsi di ergo-trofo-tropismi della mia esistenza.
    La dilatazione iridea apre un varco verso la retina: oscillazioni nastri di luce, quasi fluorescente, davanti a me. Per la spirale della coclea gli assoni - simpaticamente sollecitati i dendriti dalle ciglia vibratili - inducono al lobo temporale degli emisferi impulsi decifrati in un cadenzato scalpiccio, in un rotolare di ruote gommate di carrelli, sui quali metallicamente tintinnano bacinelle.
    L'onda cenestesica rifluisce dall'alto, cavo silenzio del sonno, modulata dal più rapido pulsare cardiaco, ritmata in frequenti inspirazioni ed ampie distensioni diaframmatiche risolte nella calma risacca di tranquille, defluenti espirazioni; piacevolmente diffusa da un rialzo di tono delle fibre muscolari; accentuata dal ritrovato vigore della peristalsi che dagli inquieti sommovimenti delle pliche gastriche discende per i visceri fino alla spasmodica contrazione rectosigmoidea. da lì, appena sopra la massa, si irraggia brusco il segnale: due trafitture lunghe e una breve ma bruciante, consueto proemio ad ogni nuova giornata. Nel mio corpo si addensa una eredità di miliardi di anni, peso temporale corporeizzato in materia vivente stanca dell'antica vicenda inorganico-organico, estenuata dall'incessante passaggio attraverso il dolore lungo una metamorfosi evolutiva di cui non so indovinare né il disegno né il fine.

    * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *

    IL MALE OSCURO DELLA LETTERATURA SPERIMENTALE paura1
    (di pierpaolo Serarcangeli)

    Interessante e curioso, allo stesso tempo, confrontare il brano che abbiamo ripreso dal libro di Miccinesi, con un altro passo, un altro risveglio problematico e angosciante. Citiamo ancora una volta Giuliano Gramigna: il testo è tratto da "Marcel ritrovato", romanzo di cui abbiamo già parlato. Vi sono molti punti in comune, molte assonanze, tra le righe scritte da Miccinesi e quelle elaborate da Gramigna:

    Comincia così: fin da prima che finisca il sonno, al mattino, un risucchio all'altezza del diaframma, altrettanto sgradevole quanto il plop di un lavabo che si svuota ma poi peggio, con la sensazione di una perdita di sangue o di una vitalità cui sia impossibile rimediare; dopo, sulle soglie della coscienza, un raccapriccio scoprendo che tutti gli organi sono fuori posto, marciano in folle e insomma che il corpo è stato sorpreso nel momento in cui non ha ancora nessun ordine e giustificazione. il cuore attacca a battere dallo stomaco, dall'intestino, da più giù ancora, rintronando disordinatamente come un tam-tam dentro la boscaglia; tachicardia e bradicardia si alternano secondo un disegno che non è controllabile; i nervi ai gomiti si mettono a vibrare, poi a tremare e, dentro, fasci muscolari guizzano via come pesci. A intervalli, tutto questo silenziosissimo catafascio si blocca, il corpo diventa una specie di cilindro dal quale, con estrema energia, viene succhiata via la pressione vitale; la colonnina del mercurio precipita giù, intorno al cuore si ingolfa una borsa d'acqua; i denti sbattono per un po' come se si avesse freddo, la pelle s'arriccia. Il medico riscontra accelerazioni al polso, sudore, raffreddamento delle estremità, dispnea; la vittima, quel buco sotto lo stomaco che si provava in attesa degli esami ma senza la speranza che possa finire, inaridimento della bocca, spesso un irresistibile e insaziabile stimolo ad urinare ma soprattutto uno sbigottimento, una torsione, una difficulté d'etre; in una parola: angoscia in grado intollerabile.

    paura3Ecco, occorre sottolineare subito che questo spleen totale, che non è solo un male dell'animo, ma produce effetti somatici evidenti e sgradevoli, è caratteristica comune a molti testi di narrativa sperimentale. In un certo senso, questo disagio, questo ripiegamento interiore verso i propri problemi, verso il malessere strettamente personale e individuale riesce a produrre, purtroppo, una sorta di frattura, di sbarramento fra lo scrittore e il lettore. La narrazione si discosta sempre più dal sociale, prende le distanze dalla comunità. Le pagine diventano lenti di ingrandimento che servono solo a scrutare all'interno di se stessi, a compiere un viaggio nei recessi della propria psiche e del proprio corpo. Il narratore e il lettore non comunicano più, non si guardano in faccia. Il testo diventa autoreferenziale, chiuso in un egoismo, in un recinto fatto di commiserazione e anche di perfido compiacimento del proprio male di vivere. Si scrive per se stessi, insomma, incuranti di quanto la letteratura abbia invece bisogno di confronti, di scambi, di libertà e di aria.
    Questo è stato certamente uno dei motivi - unito a quello che, ahimé privilegiava sempre uno stile "difficile", estremamente elaborato e difficilmente comprensibile - che ha determinato la breve vita della narrativa sperimentale, nata e conclusa nell'arco di meno vent'anni.
    Lungo questa strada impervia, quasi autodistruttiva, certamente interessante, ma certo non favorevole alla lettura, si accodano diversi narratori, tra i quali Castellaneta, Ottieri, Berto.IMG_4721BB (il romanzo di Castellaneta; clicca sull'immagine per ingrandire)

    Carlo Castellaneta (Milano, 1930 - Palmanova, 2013z) era arrivato giovanissimo alla narrativa ("Viaggio col padre", 1958; "Una lunga rabbia) e con Rizzoli aveva pubblicato due romanzi di successo: "Villa di delizia" e "Gli incantesimi"; nel 1970, sempre con Rizzoli pubblica "La dolce compagna"; protagonista è uno scrittore che un giorno, per puro caso, ha l'improvvisa folgorazione-ammonizione della precarietà dell'esistenza. "La dolce compagna" non è altro che la morte e questo senso di impotenza, di smarrimento, questo leopardiano "pensiero dominante" diventerà ossessivo al punto che condizionerà tutte le sue giornate. Gli elementi di questa nevrosi si sommano, si confondono e si scompongono lungo tutte le pagine del romanzo, complice lo stile frammentario, fantastico e a volte quasi visionario di Castellaneta. Con impressionante determinazione, l'autore ha trasfuso nelle pagine dubbi e interrogativi, in una lotta tra amore e morte che coinvolge tutti gli aspetti dell'umana esistenza. (segue)
    * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *

    Abbandoniamo per un attimo l'esposizione che riguarda andamento, caratteristiche e sviluppo della narrativa sperimentale negli anni Sessanta-Ottanta e facciamo un salto indietro di circa mezzo secolo. Anche il Futurismo, di cui avremo modo di riparlare, si può e si deve annoverare nell'ambito dello sperimentalismo (non solo letterario). Sono passati esattamente cento anni dalla morte di Umberto Boccioni, che fu uno dei più conosciuti artisti che aderirono e operarono nel movimento fondato da Marinetti. Riportiamo qui di seguito un interessante intervento di Pierfranco Bruni. Facciamo presente, inoltre, che di Boccioni parliamo anche nella Sezione "Arti visive" poiché a Milano è stata allestita nel Palazzo reale una mostra dei suoi dipinti.

    NEL CENTENARIO DELLA MORTE DI UMBERTO BOCCIONI
    Un Futurista che muore cadendo da cavallo con in tasca la lettera d'amore di Vittoria Colonna
    (di Pierfranco Bruni)

    Umberto Boccioni a cento anni dalla morte. Ma voglio andare oltre alcuni analisi critiche e biografia. Vado su un dettaglio. Il Futurismo non solo come modello di cultura o come proposta di una innovazione linguistica ma anche come “esigenza” esistenziale. Si è futuristi se si ama il rischio. Si è futuristi se la concezione della vita è una costante impresa fatta di rivoluzioni nelle idee. Si è futuristi se il colore supera il suono della parola o se le ombre dei colori attraversano il “metallico” delle parole.
    Si è futuristi alla Marinetti ma anche alla D’Annunzio. Gli amori di D’Annunzio sono stati amori futuristi? D’Annunzio certamente amava la rivoluzione ma sapeva che l’amore ha bisogno della tradizione. E non spazzavano via i sentimenti, gli imbrogli amorosi, i tradimenti. L’amore non è soltanto dare o religiosamente donare ma gli amori tra gli amanti diventa colore e, dunque, impresa.
    Per i futuristi non era naturale avere un amante o una amante ma l’amore diventa, in modo trasgressivo, passione. Ho detto passione e non ossessione. Ebbene e questo amore futurista non conosce ricompense ma neppure nostalgie o rimpianti perché lo si vive nella “penetrazione” fulminea, nella luce abbagliante, nel sentiero che non si fa orizzonte, nella durata che è parentesi ma mai fine. Ancora D’Annunzio ci ha insegnato che gli amori si vivono superando le romanticherie.
    Il teatro diventa fondamentale. L’amore futurista ha bisogno di teatro e proprio il Gabriele nazionale ha messo in piazza i suoi amori. Uno tra tutti: quello di Eleonora Duse. Un amore inquieto ma riposante. Un amore recita ma un intenso. D’Annunzio anticipa il teatro futurista proprio mettendo in piazza e nel teatro della vita e non solo della finzione i suoi amori e quello con Eleonora diventa un “fuoco” mai spento anche se la cenere riesce a mascherare ma il bravo attore sa tenere la scena. E i futuristi sapevano che bisognava tenere la scena e custodire il retroscena consapevoli che la ribalta va gestita.
    Cosa è stato l’amore di Umberto Boccioni con Vittoria Colonna? Un futurista emblematico che è riuscito a portare il colore nello sfrecciare dello spazio senza mai misurare il tempo e disperdendo i tratti e i segni. Cosa è stato questo amore? Una parentesi. Lo dice molto bene un libro (tutto da leggere) di Mariella Caracciolo Chia che racconta proprio questa passione – risorgimento dell’anima tra l’artista e una principessa. Appunto Boccioni che era nato a Reggio Calabria quando incontra la principessa Vittoria Colonna, sposata, da quindici anni, con Leone Caetani di Teano, ha trentatrè anni. La principessa ha due anni più dell’artista.
    Un incontro fulminante. Proprio, come si dice oggi, una attrazione fatale? Una parentesi dunque. Ma le parentesi nella storia come nell’amore non esistono.
    Boccioni ha un destino tragico. Siamo nel 1916. L’ultimo incontro con Vittoria avviene il 23 luglio. Boccioni muore tragicamente a causa di una caduta da cavallo il 17 agosto. Tra il 23 luglio e il 17 agosto non ci sarà alcun altro incontro tra i due ma delle lettere.
    L’ultima lettera di Vittoria viene trovata addirittura nel portafogli di Umberto quando la tragedia lo colse. Il futurista innamorato della principessa. Quel rivoluzionario del colore e delle forme si innamora perdutamente di una principessa e la principessa si tuffa in quell’amore smanioso e pazzesco come sono tutti i grandi amori che vivono di lune e di tramonti e sanno che la realtà esiste.
    Umberto e Vittoria non si smarriscono nel sogno. Sono disperatamente innamorati e si stringono tra i silenzi e i graffi della passione. Umberto in una lettera importante dirà alla sua Vittoria:
    “Quello che c’è tra noi è una profonda realtà, è nato come realtà. Per quanto poco prima ci siamo conosciuti poi simpatizzato, poi… poi c’è il nostro segreto quel meraviglioso crescendo che ci ha condotto di castità in castità alla nostra casta voluttà! Oh! Le nostre notti! Il tuo pallore, il tuo smarrimento, il mio terrore la nostra infinita comunione di corpo e di spirito. Divina mia, lo sento che mi vuoi bene, un po’ più di quando me lo misuravi con avarizia sulla punta del ditino… Rammenti? Come sono tuo! Come ti sono fratello e amico, come ti ammiro, sempre, ad ogni respiro, sempre! Sempre!”.
    Certo, si tratta di una intensità di passione e cuore. Il futurista che sapeva amare con il sapere che non può conoscere le ragioni ma la grazia del cuore. E questo futurista che è rimasto nella storia dell’arte e che ha tracciato il viaggio più incisivo di una avanguardia culturale ha saputo amare fino in fondo sempre condividendo il legame tra arte e vita e mai confondendo la vita e l’arte.
    Non si tratta di una recita che entra nella vita o viceversa ma di una realtà. È questo il punto. Vittoria apprende della morte di Umberto il giorno dopo e lo apprenda addirittura dai giornali in un trafiletto che portava questo titolo: “Il pittore futurista Boccioni muore cadendo da cavallo”. Qualche giorno dopo Vittoria scrive al marito iniziando la lettera così: “Amore mio…”.
    Umberto era morto il 17 agosto e Vittoria il 22 agosto scrive al marito chiamandolo amore mio. Oltre il futurismo c’è il destino. È proprio vero che i futuristi il senso dell’ironia (o della beffa) lo vivevano intrecciandolo a quello del tragico disperatamente cercando di “uccidere” quel chiaro di luna che resta a fare ombra tra le attese e i cammini del viaggio.
    Boccioni ha saputo essere futurista sempre disperatamente e la sua morte tragica e l’amore con la principessa Vittoria restano il segno tangibile di un attore che non ha mai saputo indossare maschere, convinto che la vita è nell’arte e l’arte è nel colore. Il colore è una musica oltre la biografia.
    * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *

    IL MUTAMENTO DELLA LINGUA E DELLO STILE FRA TRADIZIONE E MODERNITA'
    (di Pierfranco Bruni)

    Le contaminazioni e il vocabolario etnico sono nella lingua italiana. In quella scritta e in quella parlata. Bisognerà dare un ruolo consistente alla lingua italiana soprattutto partendo dalla letteratura del Novecento e dalle contaminazioni etniche. È in essa che si sono moltiplicate le forme e le metodologie di linguaggio che hanno guidato la storia della lingua nella modernità, attraversando epoche ed opere già con San Francesco d’Assisi sino ad Angelo Poliziano, dal Rinascimento alle ‘etichette’ illuministiche, che hanno cercato di formulare un inciso rivoluzionario, ma che hanno consegnato la lingua stessa a Manzoni, e da questo alle avanguardie di Pascoli e D’Annunzio, filtrando notevolmente il Futurismo sino alla lingua post realista, alla quale la letteratura si è agganciata e alla quale soprattutto il cinema si è aggrappata. Lo stesso Futurismo ha usato segni etnici proveniente dal Mediterraneo.
    Dopo gli anni Sessanta si è verificata una vere e propria modifica dei canoni e se si vuole di un vocabolario tra la scrittura e il parlato. Dagli anni Sessanta ad oggi la lingua ha assunto precise chiavi di lettura.
    Quella codificata da una norma dei vocabolari che hanno assorbito i cambiamenti anche sintattici e le forme dialettali, oltre alla assunzione di comparazioni con la lingua inglese, lingua che in molti termini ha preso il sopravvento, ma che è la lingua italiana ufficiale.
    Quella correntemente parlata che, se pur in una forma corretta, ha innesti modulari rispetto a quella scritta perché ha tagli favoriti da un linguaggio piuttosto discorsivo.
    Quella cosiddetta “bastarda” che è dovuta all’intreccio tra una scrittura giornalistica, televisiva, telematica con ulteriori innesti che sono distanti dalla tradizione degli anni Settanta.
    C’è una quarta chiave di lettura, non inclusa in un discorso ufficiale ma insiste, che è quella che proviene dai testi delle canzoni.
    I giovani usano come forme direzionali della comunicazione l’incrocio delle due ultime chiavi per confrontarsi, per dialogare, per definire un qualcosa e anche per definirsi.
    Io addirittura aggiungerei ancora una quinta chiave che è quella portata dalla presenza delle lingue degli immigrati. Non sarebbe da sottovalutare considerato il fatto che sono detentori di un loro linguaggio comunicante ma sono anche depositari di una loro lingua. Non sempre il loro linguaggio comunicante, che potrebbe essere inteso come una caratterizzante formula dialettale, si pensi agli albanesi o agli arabi tunisini ed eritrei, è fedele alla lingua della loro Nazione. Anzi non lo è quasi mai.
    Tutti questi aspetti riguardano l’importanza di dare un senso storico alla tutela della lingua italiana. È naturale che non c’è più una lingua ufficiale tradizionale. La tradizione nelle lingue è un fatto soltanto di consapevolezza di eredità, di ricostruzione identitaria, di analisi dei processi sia letterari sia storici stessi sia prettamente linguistici, ma si scende in una dimensione che è antropologica.
    Discutere di una lingua corretta, oggi, significa ripristinare delle griglie che però, dobbiamo essere consapevoli, non corrispondono alla realtà dei parlanti e degli scriventi.
    Il parlante già di per sé, pur mantenendo fede, alla consueta formula della grammatica e della sintassi, usa sempre un vocabolario innovativo: innovativo, oggi, è anche il ripescaggio di termini obsoleti, ovvero una parola usata da Tommaseo è innovativa ma anche “arcaica”.
    Lo scrivente, che dovrebbe usare la lingua come estetica e correttezza dell’ufficialità e dell’esempio, potrebbe essere lo scrittore. Dante e Manzoni sono esempi e testimonianze che rispecchiano un tempo linguistico che non c’è più ma che ha fatto uso di contaminazioni etnieche. Soprattutto Dante.
    Noi parliamo, in questo nostro tempo, il linguaggio di Andrea Camilleri, che ha una interpretazione prettamente etno-antropologica (ne parlo in senso non negativo: attenzione), il linguaggio di Carlo Emilio Gadda con le varie sfaccettature, anche sul piano della punteggiatura, (lo dico senza voler entrare nella rivoluzione linguistica futurista che ha stravolto la lingua italiana: si può accettare o meno ma è così), il linguaggio di Alberto Bevilacqua con delle sfaccettature anche discutibili, ma che io accolgo con piacere, il linguaggio di una scrittura puramente giornalistica trasportata come una nuova impostazione narrante in testi che si fanno passare per narrativa, il linguaggio attento di Pasolini che soltanto ora trova una sua interessante ottimizzazione.
    Sono solo pochi esempi. Si pensi a Luigi Meneghello o a Lucio Mastronardi o ad Alberto Moravia o alla poesia di Giorgio Caproni . Noi viviamo in questa età e non tra Dante e l’Illuminismo o tra il Romanticismo e Ada Negri.
    Poi c’è la presenza degli scrittori stranieri che, se pur tradotti, vengono ben recepiti sul piano della sintassi ma soprattutto su quello della punteggiatura. Uno scrittore tra i tanti: Garcia Màrquez. Il romanzo che gli ha dato la notorietà vira qualsiasi forma di punteggiatura e quella standardizzazione di concetti ha influito notevolmente nella lingua letteraria contemporanea.
    Il fatto, invece, è un altro. Il vocabolario ha un suo compito specifico che instrada verso una direzione ben definita. Il linguaggio è ben altra cosa. Non si può imporre allo scrittore, pensate al poeta contemporaneo, di impostarsi secondo i canoni del vocabolario della lingua. Sarebbe un omicidio ma sarebbe anche un suicidio della stessa lingua.
    Bisognerebbe una buona volta convincersi che la tradizione del dibattito delle lingue, sviluppatosi intorno al De Vulgare e anche prima, non interessa e non tocca la comunicazione della letteratura dei nostri giorni e tanto meno i “lucchetti” parlanti dei nostri figli e delle piccole macchine parlanti che usiamo tutti per comunicare. E se Dante non interessa, è storia e deve restare tale, non interessa neppure il rapporto linguistico tra Manzoni sino a Carducci e a un certo Pascoli.
    Dobbiamo convincerci che la lingua italiana è completamente mutata rispetto agli anni Cinquanta del ‘900. E’ mutata rispetto agli anni ’70 – ’90. Chi si ricorderà la lingua usata nei volantini delle Brigate Rosse negli anni Settanta si renderà conto la tipologia sintattica (non parlo delle minacce o dei codici terroristici ma della grammatica o di altre scorrettezze morfologiche) che si innervava nella nostra società. In che termini linguistici, mi sono spesso chiesto, comunicavano le Brigate Rosse con l’attento e forbito Aldo Moro?
    I cambiamenti delle società cambiano anche la lingua. I cantautori degli anni Sessanta capirono questa trasformazione e a loro si deve molto nell’aver mantenuto fede ad un codice sostanzialmente in linea con la tradizione. La cinematografia è andata su un altro versante.
    Bisogna affrontare tale questione e credo che una scuola dentro i mutamenti delle società dovrebbe avere un ruolo predominante. Ma molte volte dipende dai docenti e soprattutto dai testi adottati. Un altro problema dolente.
    Le antologie scolastiche a moduli sono completamente non convincenti perché svianti. Sono costruiti in modo che non possono essere compresi senza l’interpretazione attenta del docente. Che senso hanno i percorsi modulari in una antologia letteraria? Io non ho neppure intenzione di affrontarlo questo discorso perché son ostile a questa interpretazione che permette soltanto una cosa: la distruzione dei parametri letterari dello scrittore e l’incomprensione vera di uno scrittore o di un poeta. È come se lo scrittore avesse scritto per essere inserito in un modulo.
    Ma dai, fa ridere questo sistema ed è anche doloroso sia per lo scrittore che per la storia della letteratura che adotta un’impalcatura di altro genere. Anche qui è questione di lingua. Lo scrittore e il poeta non pensano mai di essere strumento della critica, lo si vuole capire o no, e tanto meno pensano se un domani verranno collocati in un determinato blocco.
    Pensate agli orrori commessi su Cesare Pavese. Ancora è un modulo neorealista, se lo si fa entrare in un modulo, quando egli stesso ha scritto di non essere realista o neo, e di non essere considerato tale.
    Insomma, ci troviamo di fronte ad una ristrutturazione sia della lingua e attraverso la lingua ad una ristrutturazione della letteratura. Si avrà il coraggio, la forza, la consapevolezza, la preparazione di mettere in discussione un apparato del genere?
    Noi cercheremo di fare la nostra parte. Chiediamo alla scuola di fare la sua parte. Ai docenti di non attraversare le antologie, ma di leggere gli scrittori e i poeti direttamente e agli antologizzanti di rivedere le loro posizioni di ogni genere o di ogni struttura. Le contaminazioni sono dentro la lingua. Anzi la stessa lingua è una costante contaminazione in un vocabolario tra scritto e parlato. Lingua, contaminazione ed etnie formano un vocabolario che è bene culturale fra tradizione e innovazione




    

    Edited by pierpaolo serarcangeli - 17/6/2016, 19:12
     
    Top
    .
0 replies since 14/3/2016, 14:11   260 views
  Share  
.