Articoli della Direzione (pag. 1): letteratura - storia - critica - autori - novità.

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    Nota: gli articoli sono in ordine cronologico dall'alto verso il basso; pertanto, i più recenti sono in fondo alla pagina
    Indice degli argomenti: (in giallo l'articolo o gli articoli più recenti)

    - Piccola premessa... permetteteci una facezia.
    - Questo è lo sfascio al quale ci ha portato la politica commerciale delle "grandi" e ottuse case editrici.

    - Virginia Woolf
    - Sibilla Aleramo a 140 anni dalla nascita
    - Oriana Fallaci: rileggere e discutere
    - La madre e l'ombra nel Pirandello oltre le nude maschere
    - Cesare Pavese tra l'ironia e lo scherzo
    - La danzatrice bendata mi canta il suo amore tra suoni mediterranei e voci adriatiche
    - Cinquanta anni fa moriva Elio Vittorini, uno scrittore tra conformismo ed eresia
    - Il Mediterraneo è disarmonia tra realtà e civiltà
    - Guido Guinizzelli: una lingua e una canzone nel vissuto della modernità
    - A centodieci anni dalla nascita di Sandro Penna
    - Il sublime e l'estasi di Pedra Francisca (Antonia) de La Valle - poesia del Rinascimento
    - Da l' "Orlando" di Ludovico Ariosto a un poeta sconosciuto come Teodoro Fiordiluna
    - Pubblicati i diari inediti di Fabrizio De André
    - Gutemberg e la stampa a caratteri mobili
    - L'anima zigana, i viandanti e le metafore etniche
    - Pirandello e Pavese: gli scrittori del tragico e della dissolvenza in un tempo inquieto
    - Carlo Cassola. Ricordo di un grande scrittore (a pag. 2)
    - Il francescanesimo nella poesia. dalle origini ad oggi (a pag. 2)
    - La pericolosa utopia di Tommaso Campanella (a pag. 2)
    - Gesualdo Bufalino e la nostalgia per una terra (a pag. 2)
    - Pinocchio. I grandi contrasti di una fiaba affascinante (a pag. 2)
    - Mario Soldati. Lo scrittore fra letteratura e cinema (a pag. 2)
    - Mia Martini, la voce femminile più mediterranea della musica italiana (a pag. 2)
    - "Cime tempestose". Emily Bronte e la casa che diventa nido di intrighi e cocenti dolori (a pag. 2)
    - Misteri e donne di D'Annunzio. Oscure trame al Vittoriale (a pag. 2)
    - Simone Weil. Il senso del divino incontra il tragico (a pag. 2)
    - Vincenzo Cardarelli. Un poeta dimenticato (a pag. 2)
    - Rodolfo Valentino. Poeta oltre l'attore (a pag. 3)
    - Carlos Castaneda e antropologia del mistero (a pag. 3)
    - "Memento audere semper". D'Annunzio, la Patria, la guerra e il suo "Notturno" (a pag. 3)
    - Il Gattopardo e Tomasi di Lampedusa - La cultura letteraria raggiunge l'animo popolare (a pag. 3)
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    piccola premessa... permetteteci una facezia (clicca sul link per visionare l'immagine)

    www.facebook.com/photo.php?fbid=10...74384467&type=3

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    Questo è lo sfascio al quale ci ha portato la politica commerciale delle "grandi" e ottuse Case editrici (clicca sul link per leggere l'articolo)

    www.cultora.it/berardinelli-la-lett...cano-spazzatura

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    In linea con l'orientamento di queste pagine, tra innovazione e tradizione letteraria, pubblichiamo un articolo sulla scrittrice Virginia Woolf
    (tratto dal sito leggere-facile.it) - cliccare sul link sottostante - virginia

    www.leggere-facile.it/virginia-woolf

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    sibilla Abbiamo il piacere di pubblicare un articolo di Pierfranco Bruni su Sibilla Aleramo.

    (cliccare sul link per leggere l'articolo. AVVERTENZA: per una svista il titolo scritto da Bruni è errato: leggasi "a 140 anni dalla nascita" - 1876/1960)
    www.portaleletterario.net/rubriche/...manzo-una-donna

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    Oriana Fallaci: rileggere e discutere FALLACI
    Se l’Italia, le scuole, la chiesa, gli intellettuali avessero coraggio e cultura inviterebbero a leggere, a studiare a discutere su Oriana Fallaci in questo tragico tempo
    (di Pierfranco Bruni)

    Se l’Italia avesse coraggio, se la scuola italiana avesse coerenza, identità e fortezza, se gli intellettuali ragionassero con l’anima e con le appartenenze geo-politiche e non ideologiche, se le università conoscessero la grande storia dell’incontro tra Occidente ed Oriente, se i cattolici e la chiesa fossero veri cristiani e non clerico comunisti… dedicherebbero, in questi giorni, seminari, incontri, convegni su una grande donna che si chiama Oriana Fallaci. Proprio in questi giorni di fuoco, di contraddizioni, di schiaffi segnati dal dubbio scavati nel cuore dell’Occidente Oriana Fallaci resta un riferimento in quella strategia del coraggio che è forza di vita e di idee. Una scrittrice che ha saputo raccontare la nostra contemporaneità tra le tragedie della modernità. Passare per le parole e giungere al limitare degli orizzonti. Quegli orizzonti, che per la Fallaci, segnano il confine tra l’Occidente e il Mediterraneo.
    Il deserto, forse l’esilio e le donne che sembrano impastate da intreccio che recita rivoluzione e senso di una assenza. Passate le parole restano le immagini e le immagini fanno la storia, la storia di una visione della vita e dello spazio nel quale si abita la nostra esistenza. Ma forse più della rivoluzione può la consapevolezza di vivere dentro una temperie fatta di scontri, di guerre, di viaggi tra il mare, il deserto, le sabbie, le frontiere, le trincee e gli amori spezzati proprio nel momento in cui si affollano le comprensioni o le interpretazioni dei destini.

    Una storia. Certo, quella di Oriana Fallaci che non ha mai conosciuto rinunce ma è stata dentro quegli orizzonti tra Occidente e Oriente. Una metà di un Mediterraneo che è dentro in ognuno di noi.
    Una giornalista che è entrata nella letteratura. Anzi una scrittrice che ha “fisicamente” e letterariamente “cucinato” il linguaggio giornalistico con quello di una scrittura rapida, in cui il narrato, il vissuto, il sofferto, il visto si è trasformato nelle lunghe sfide che hanno abbracciato la vita trasformandola in un destino proprio sul filo della letteratura. Anche le sue interviste hanno raccontato, anche le sue interviste hanno fatto storia, anche le sue interviste sono il narrato di un pezzo di esistenza non solo di Oriana Fallaci ma di un contesto che è quello di una civiltà che si è giocata la propria eredità ed identità tra i rossi tramonti abbruniti degli spari tra le trincee dove gli uomini muoiono veramente e i popoli si sradicano e la ricerca di una affermazione di umanità.

    Intanto: l’Italia non comprende ancora la questione. La chiesa è completamente clerico – marxista. La scuola è completamente impreparata. Le università plagiate dalle ideologie relativiste.
    L’Occidente con gli Stati Uniti d’America sono stati il perno di una formazione culturale dentro la quale la controrivoluzionaria Fallaci ha definito la sua non stanzialità e il suo nomadismo legati ad un bisogno di sapere e di conoscere. Nel 1969 pubblica la sua esperienza di un anno di guerra in Vietnam in un libro dal titolo: “Niente è così sia”. Ma sono gli anni di una contestazione non solo studentesca ma esistenziale. La Fallaci, come Pasolini, guarda con sospetto i figli di papà che inneggiano a Che Guevara e crede ben poco alla risoluzione di quelle piazze occupate in Italia o in Francia. Sembra tutto ben poca cosa rispetto a ciò che avviene in India, in Pakistan, in Sud America, in Medio Oriente.
    C’è un Occidente, in quegli anni, che esplora con l’Apollo 12 la luna e un Medio Oriente in costante conflitto. La Fallaci non vuole restare soltanto una testimone dei fatti che raccontano sempre mosaici di vita. Il suo rapporto con Alekos Panagulis, conosciuto, in Grecia, il 21 agosto del 1973 è uno dei tasselli importanti, straordinari, unici sia per il suo cammino letterario sia soprattutto per quello intimo, sentimentale, esistenziale. L’incontro tra i due avviene proprio nel giorno in cui Panagulis esce dal carcere. Un incontro che diventa una unione di passione e di condivisioni. Il loro rapporto dura soltanto tre anni, perché Panagulis muore in un misterioso incidente stradale il 1 maggio del 1976. Una storia, dunque, che racconta la Grecia dei colonnelli e la vita di Un uomo.
    Il suo romanzo del 1979 ha per titolo, appunto, “Un uomo”. La stessa Fallaci parlando di questo libro, in una intervista, dirà: “Un libro sulla solitudine dell’individuo che rifiuta d’essere catalogato, schematizzato, incasellato dalle mode, dalle ideologie, dalle società, dal Potere. Un libro sulla tragedia del poeta che non vuol essere e non è un uomo – massa, strumento di coloro che comandano, di coloro che promettono, di coloro che spaventano…”. Un romanzo nella grecità profonda e moderna come era stato il suo primo romanzo del 1962 dal titolo: “Penelope alla guerra”, nel quale si racconta la storia di una donna che non vuole attendere il suo Ulisse e si metaforizza in una Penelope che viaggia e lascia le mura di Itaca per penetrare il senso di una identità in una ricerca verso le libertà come valore di una consapevolezza.
    Anche qui si registra uno scontro diretto con le eredità mediterraneo alle quali la Fallaci si oppone con una forza umana tutto occidentale e scavata nel proprio tempo senza cedere a nostalgie o rimpianti che risultano come misure della storia. Due tappe fondamentali nella scrittrice Fallaci sino ad arrivare agli anni Novanta, passando attraverso le storie e la storia e soprattutto nel tanto discusso e non ipocrita “Lettera ad un bambino mai nato” che oggi si presenta come un atto quasi profetico se si pensa che la prima edizione vide la luce nel 1975, che vengono caratterizzati dall’imponente romanzo “Insciallah”, pubblicato nel 1990.
    Il romanzo – saggio nasce all’interno di una “sua spedizione” tra le truppe italiane che erano state inviate nel 1983 a Beirut. Un racconto affascinante tragico, dolorante e contemplante ma anche irruente. “Non di rado infatti sfuggo all’esilio delle scartoffie e non osservato osservo. Ascolto, spio, rubo alla realtà. Poi la correggo, la realtà, la reinvesto, la ricreo, e con l’amletico scudiero ecco il discepolo generale che crede di poter sconfiggere la Morte, ecco il suo disincanto ed estroso consigliere, ecco il suo erudito e bizzarro capo di Stato Maggiore, ecco i suoi ufficiali ora bellicosi e ora mansueti, ecco la moltitudine sfaccettata della sua truppa…” (Da una lettera del Professore, nel testo).
    Un filo consistente lega “Insciallah” con gli scritti successivi. Un Medio Oriente che è sempre più terra di deserti, di scontri, di viaggi nella tragedia e un Occidente che si affaccia sia geograficamente che culturalmente ad un Mediterraneo fatto di tanti altri Mediterranei che si raccontano nelle loro avventure e nei loro ambigui territori: alla ricerca di una cristianità profonda e di un fondamentalismo islamico che approderà alla tragedia dell’11 settembre.
    Cosa sono, in fondo, gli ultimi suoi libri: “La forza della ragione”, “La rabbia e l’orgoglio” e “L’Apocalisse” che racchiude anche “Oriana Fallaci intervista se stessa”? Sono un superamento culturale sia della storia e identità musulmana sia delle eredità mediterranee. Il tutto nell’orgoglio di un Occidente che dovrebbe però smettere di tessere e ritessere quella tela metaforica e reale incarnata da Penelope. Ormai Penelope è andata alla guerra. L’orizzonte di sabbia e di deserto, di mare e di acqua e le contraddizioni delle metropoli e di un Occidente sempre più americanizzato sono in costante conflitto.

    La Fallaci ci invita ad una scelta. Il Mediterraneo resta un orizzonte nella storia ma anche nelle pretese del futuro, il Medio Oriente è un islamismo che invade e l’Occidente della civiltà moderna non può che essere nella nostra contemporaneità. Ma c’è una storia che si trasforma in memoria e c’è un uomo che è dentro la vita di Oriana che non smette di parlare come un eroe nella bellezza delle parole, di quelle parole che per restare non possono che essere passione. La passione della scrittura.
    La passione della parola in una scrittrice tra confini. L’Oriente e l’Occidente. E le donne che restano impastate nella sabbia del deserto e nelle piramidi delle vetrate dei grattacieli occidentali.
    Nata nel 1929. Muore il 15 settembre del 2006. Non solo una giornalista ma una scrittrice che ha penetrato i sentieri delle parole attraversando luoghi e vivendo avventure e destini. Non può che stare con orgoglio e senza pregiudizi nella storia della letteratura italiana del Novecento. Un Novecento tra l’Occidente e l’Oriente. Ma le scuole italiane hanno una loro fragilità, le università sono permanenza ideologica, gli intellettuali hanno smarrito l’anima, i cattolici sono relativisti e culturalmente non attrezzati … ma il dialogo tra don Abbondio e Pilato continua a mietere ignoranza…
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    LA MADRE E L'OMBRA NEL PIRANDELLO OLTRE LE NUDE MASCHERE
    (di Pierfranco Bruni)


    Il tempo della mancanza è il tempo dell’assenza. Il tempo del vuoto diventa il tempo della differenza tra la presenza e l’incapacità di afferrare il senso delle cose. Tutto ciò che un giorno è stato si trasforma in una ferita che si esprime con un viaggio nella malinconia. La malinconia è l’estremo senso del silenzio. Non usa parola altisonanti. Se serve piuttosto dello sguardo, del volto, delle mani nei movimenti e dei gesti.
    La mancanza e l’assenza sono ferite dell’anima, ma restano tagli incisi nel profondo degli occhi che fissa l’esterno e custodisce il profondo. Si diventa maschere nude. La perdita della madre è un nascondimento della realtà che non è più tale ma trasgredisce a vuoto. La perdita della madre è una assenza che diventa accompagnamento oltre le ombre che camminano nella coscienza. Luigi Pirandello nei “Colloqui coi personaggi – II” (dalle Novelle), pubblicato sul “Giornale di Sicilia”. 11 – 12 settembre 1915, scava tra le ombre e tra le ombre la madre ha una grecità che ha una onirica visione metafisica e un vissuto archetipico grazie al quale si annulla ogni interpretazione del tempo. Non è più assenza. È consapevolezza della presenza spirituale che allontana la ruga della presenza reale – materiale.
    La madre in Pirandello non è mai una maschera nuda. Piuttosto è un volto assente perché continua a vivere, con la sua assenza, nel suo volto presente a se stesso e presente ad un gioco di specchi che si incastra in un riflesso ontologico, in cui la parola, il dialogare o il colloquiare, ha un portato sacro. La madre è sacralità. Si ascolta: “- D’esser forte, Mamma, mi dici, in questo momento di prova suprema per tutti? Forse sì... ma tu, Mamma? Proprio in questo momento lasciarmi, partirti da quel tuo cantuccio laggiù, ove io venivo col pensiero a trovarti ogni giorno, quando più cupa e fredda mi doleva la vita, per rischiararmi e riscaldarmi al lume e al calore dell’amor tuo, che mi rifaceva ogni volta bambino…”.
    C’è un asterisco metaforico in questo Pirandello. Quello del legame tra l’adulto e il ritornar bambino. È sempre il tempo che si frappone tra il sublime della nostalgia e l’interiorità della realtà che riporta costantemente alla Assenza. Siamo nella stanza delle “emozioni ferite” e si interrompe quell’archeologia del silenzio (Eugenio Borgna) che ha dominato il contemplare della distanza–lontananza. Pirandello e oltre. La cifra del suo viaggio letterario è un infinito che gioca costantemente con le emozioni e le emozioni diventano personaggi. In questo incontro si è cercato di creare un confronto tra il senso del destino nella letteratura e la letteratura come avventura in una ricerca che è fatta di silenzi, di linguaggi, di parole e di colloqui. Si vive sempre oltre, ma si vive, comunque, se se si stesse in un teatro che è la rappresentazione del dramma umano tra l’ironia e l’assurdo.
    Dal romanzo al novellare, dalla poesia al teatro è tutto un legare lo sguardo della maschera con gli occhi e il volto.
    Dunque un viaggiare nello spazio di un tempo che sembra illimitato ma è soltanto indefinibile. Pirandello è la maschera nuda ma è anche il volto che si ritrova nello specchio. L’anima è fatta di stanze. Si vive in ogni stanza e si tocca, in ogni stanza, la parete della solitudine e le pareti della malinconia. Un vissuto che non può essere catturabile mediante la descrizione.
    Ancora la madre nel Colloquio: “…la vita, figlio, tu lo sai, noi la diamo ai figli perché la vivano loro e ci contentiamo se qualcosa ancora di riflesso ne venga a noi; ma non ci sembra più nostra; la nostra, per noi, dentro, resta sempre quella che non demmo ma che ci fu data, a nostra volta; quella che, per quanto nel tempo s’allunghi, serba dentro pur sempre il primo sapore d’infanzia e il volto e le cure della mamma nostra e di nostro padre e la casa d’allora com’essi la avevano fatta per noi... Tu puoi saperlo, quale fu questa mia vita, perché tante volte io te ne parlai; ma altro è viverla, figlio, una vita...”.
    Una vita! Una vita nella ferita che diventa inesorabile trauma di esistenze con le quali Pirandello ha raccontato la sua attraverso il destino dei personaggi in un teatro che non ha pareti, ma soltanto uno spazio indefinito e indefinibile. Da questo spazio l’assenza si fa destino e nelle assenze le ombre sono chiaroscuri che hanno voci che non smetteranno di portare echi che segnano scavi d’anima. Così: “Perché tu non puoi più pensarmi com’io ti penso, tu non puoi più sentirmi com’io ti sento! È ben per questo, Mamma, ben per questo quelli che si credono vivi credono anche di piangere i loro morti e piangono invece una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati. Tu l’avrai sempre, sempre, nel sentimento mio: io, Mamma, invece, non l’avrò più in te. Tu sei qui; tu m’hai parlato: sei proprio viva qui, ti vedo, vedo la tua fronte, i tuoi occhi, la tua bocca, le tue mani; vedo il corrugarsi della tua fronte, il battere dei tuoi occhi, il sorriso della tua bocca, il gesto delle tue povere piccole mani offese; e ti sento parlare, parlare veramente le parole tue: perché sei qui davanti a me una realtà vera, viva e spirante; ma che sono io, che sono più io, ora, per te? Nulla. Tu sei e sarai per sempre la Mamma mia; ma io? io, figlio, fui e non sono più, non sarò più...”.
    Tra figlio e mamma c’è la parola e lo sguardo. Tra il parlare e il guardare ci sono i segni che sono linee di inquietudine. In Pirandello, comunque, si agita e si abita una triangolarizzazione tra la madre, Antonietta, la moglie, e Marta Abba. Ma la metafora dell’ombra è soltanto lo specchiarsi nel volto della madre. Ed è soltanto lei che non diventa maschera.
    La madre è il volto. Antonietta e Marta Abba sono la maschera nel teatro dei personaggi che vivono in cerca d’autore.
    Dalla pazzia all’amore e dal sentiero d’amore alla malinconia. La madre resta la malinconia. Così il tempo di Pirandello è nella malinconia dell’attesa del dialogare tra il personaggio Pirandello e la madre. E questo tempo è mancanza, assenza, vuoto, distanza, lontananza. Ma non diventa mai una maschera. Resta il volto. Non un volto. Il volto. La madre è il volto.
    La chiusa del Colloquio è una “esercizio” spirituale che resta e le parole della madre sono un concluso tempo, ma anche una speranza che annuncia un richiamo profetico: “Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sacre e più belle”.
    Un vissuto che resta tale in quanto vissuto. Poi il resto è una tenda dietro la quale può esserci il nulla come può esserci l’orizzonte che raccoglie gli infiniti. Pirandello è un giocatore che ben conosce sia la recita che la tragedia.
    Questo nel tutto e il nulla è una vacua linea solcata tra le ombre che insistono nel viaggiare pirandelliano.
    E poi oltre… Ma bisogna arrivarci in questo oltre. Abitarlo e osservare cosa è rimasto dietro e cosa si legge tra i punti sospensivi che metaforizzano un annuncio o una attesa. Con Pirandello si va sempre oltre… Il senso della sacralità è un misterioso cammino. Continueranno, il sacro e il mistero, a viaggiare non solo nelle parole ma soprattutto nella vita di Pirandello. Nel Colloquio con la madre si intrecciano non i ricordi, ma le memorie che si fanno tempo
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    CESARE PAVESE TRA L'IRONIA E LO SCHERZO
    (di Silvana Conti)

    Da alcuni scritti di Pavese, pubblicati molti anni dopo la sua morte, emerge in modo marcato un aspetto ironico e scherzoso del suo carattere. Lo scrittore si dimostra pronto al sorriso e allo scherzo, soprattutto nel contesto familiare e amichevole (lettere a Ludovica e alla sorella Maria). Proprio su questo aspetto poco conosciuto della sua indole si sta ora accentrando l'interesse degli studiosi. Il brano seguente è tratto dal mio saggio "Cesare Pavese - l'amore, l'allegria, la disperazione" - Serarcangeli Editore snc, Roma).

    Il senso scherzoso di Pavese, molto marcato in tutte le sue sfumature, si rileva moltissimo nelle lettere, e, in particolare in quelle indirizzate alla sorella Maria e si nota frequentemente anche nel Diario, dove “…il suo male oscuro viene frequentemente nascosto dall’ironia e dal ghiribizzo”.
    Sul mistero della sua personalità, problematica e spesso contraddittoria, si è espressa con molta chiarezza Bona Alterocca:
    “Egli fu, volta a volta, uguale e diverso, secondo le persone con cui parlava… Fu uno dei suoi gusti sottili sottrarsi al prossimo, metterlo fuori strada, come se volesse beffarlo e insieme difendersi…”
    Il suo amico Giaime Pintor traccia in poche parole un breve ritratto di Pavese:
    “Il suo umorismo sobrio di piemontese, la stessa dignità e fierezza con cui porta i vecchi abiti, le scarpe da povero, gli strani tic di un uomo solo. C’è un continuo esitare fra la sua ingenuità naturale e la comprensione per gli altri che ne deriva”.
    Non molto diversa l’immagine che ci lascia di lui Carlo Muscetta:
    “Solitario e un po’ rospo, abitudinario. E nemmeno quando gli abbiamo detto che ha la voce melodiosa e calda s’è deciso a parlare più spesso. Da quando va al suo ufficio editoriale è più difficile ancora pescarlo in qualche caffè a leggere o a scribacchiare o a fumarsi un beato sigaro…”.
    Il critico Anco Marzio Mutterle ha analizzato questa caratteristica “arguta” che appare sia nella vita che negli scritti di Pavese, ritenendola non genuinamente liberatoria, anzi avvertendoin essa una carica negativa: “Questo comico pavesiano quasi mai provoca la risata liberatrice, emana anzi un senso di insopprimibile tristezza, perché il personaggio che lo elabora raramente giunge a dimenticare il proprio io empirico, l’affollarsi delle sue insoddisfazioni e rincrescimenti”.
    Nell’uomo-Pavese esiste anche l’allegria: la capacità di abbandono alle sensazioni vitali di rinnovamento, la gioia del ricominciare o di percepire la freschezza dell’inizio di un nuovo giorno, nella luce del mattino, spesso paragonato alla donna amata:
    “È una gioia passare per strada, godendo
    un ricordo del corpo, ma tutto diffuso d’intorno
    Nelle foglie dei viali, nel passo indolente di donne,
    nelle voci di tutti, c’è un po’ della vita
    che i due corpi han scordato…”

    In una lettera inviata nel 1949 a Lalla Romano, Pavese esprime la consapevolezza della propria indole scherzosa, parlando di sé in terza persona: "Saggi come il tuo mettono voglia che siano lunghi cento pagine. Sono certo che non mi piace soltanto perché parli di me. Anzi, leggendo, dicevo Ma com’è simpatico questo Pavese. Bisogna che mi decida a leggerlo a fondo e tutto".
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    LA DANZATRICE BENDATA MI CANTA IL SUO AMORE
    TRA SUONI MEDITERRANEI E VOCI ADRIATICHE
    (di Pierfranco Bruni)

    Vi racconterò la favola del Mediterraneo e dell'Adriatico... ma non oggi che la danzatrice bendata mi canta il suo amore.
    1. Ci fu una disputa tra il Mediterraneo e l'Adriatico. Tante epoche fa.
    Si sfidarono sul fatto che la parola può avere un senso diverso se viene recitata, o se viene cantata, nelle terre e nei mari del Mediterraneo o nelle terre e nei mari dell’Adriatico.
    Così nacque la recita che si fece canto?
    E il canto diventò musica e la musica tocco le corde dell’anima e tutto vibrò. Ma non bastò. Si sfidarono sul piano storico e geografico.
    GEOPOLITICO. L'Occidente è collocato nel Mediterraneo o nell'Adriatico? Una domanda alla quale cerco di trovare una soluzione e non una risposta.
    2. Si trovarono di fronte Angelica, Orlando e Medoro. Il vento che veniva dalla nave dei pirati, e non viceversa, poste costantemente la domanda. Angelica non volle rispondere. Orlando si infuriò. Medoro si trovò su un'isola appartenente ai Saraceni per una gran parte e ai Crociati per una piccola parte.
    Vero?
    Non importa. La disputa andò avanti per epoche. Sino ad oggi.
    3. Noi cosa siamo nelle nostre eredità? Lo vado scrivendo lungo i viaggi delle mie due vite. MEDITERRANEO O ADRIATICO?
    Vi racconterò tutto tra non molto. E con pazienza.
    Quale sarà mai il dio del Mediterraneo? E quale dell'Adriatico? I popoli sono in viaggio i il viaggio mi abita...
    Ma voi pensateci un po' perché lunga è la via dell'ignoranza, larga è la foglia di fico dell'ipocrisia, ed io aspetterò che il tramonto divenga Alba.
    Dite la vostra che io, certamente dirò, la mia senza alcun timore.
    Tutto questo ha un senso? Io sono convinto che tutto ha un senso nelle vite che ci appartengono e in quelle che ci sono appartenute.
    Resta sempre la foglia di fico che maschera l’impazienza dei popoli.
    4. Credo che l’amore potrebbe salvare tutto. Ma è UTOPIA. Perché l’amore è un tempo incancellabile anche se resta soltanto un giorno di festa tra le civiltà vive e un ricordo tra le civiltà morte.
    Osservo sempre il sole tramontare e l’alba rinascere. Non è mai lo stesso tramonto perché non è mai lo stesso sole. Non è mai la stessa alba perché non si vive ogni giorno la stessa rinascita.
    Gli antichi popoli conoscono ciò.
    Il Mediterraneo e l’Adriatico sono sogni e coltelli nella sfida dei destini.
    Proprio per questo oramai non costeggio più le maree di vento e ho capito che il tempo è inesorabile, come una lama di vetro che taglia le nostre esistenze, e sempre più spesso ci leghiamo a un Dio che possa illuminare il cammino.
    Non restiamo soli perché qualcuno ci abbandona. La solitudine è la vera vita dell'intelligenza e del mistero.
    Cerchiamo la pazienza.
    Cerchiamola in noi per poter vivere il viaggio che ci aspetta da presenti o da assenti alla vita.
    E affidiamoci al mistero che cuce i fili della Energia.
    5. Ho trovato scritto su una conchiglia di pietra d'Oriente queste parole: "Quando il sole tramonta non fissare l'orizzonte e non aspettare che il sole scompaia dal tuo sguardo. Lascialo libero. Voltati e osserva ciò che avevi dietro e cogli l'istante delle ombre. Ogni qualvolta ti è possibile cattura l'ombra e non il sole perdersi negli orizzonti ".
    Non costeggio più le maree del vento.
    Chiedo che la pazienza mi illumini, che il silenzio mi dia il senso di un'esistenza, che la solitudine mi faccia compagnia e sia la vera alleata nel vivere dei miei giorni in preghiera.
    E intanto i popoli si scontrano.
    Il MEDITERRANEO è una conca i cui naviganti vanno oltre e i viandanti conoscono ogni duna di deserto.
    L’ADRIATICO è una striscia che amplia tra le pietre di roccia e le pietre di salsedine e di freddo.
    Purtroppo resto impantanato nella non risposta di Angelica, nella follia di Orlando e nelle isole di Medoro.
    Il MEDITERRANEO che vorrei nasce dalla non risposta di Angelica.
    L’ADRIATICO che non vorrei è nel cammino dei Saraceni.
    Qui orami anche io sono impazzito.
    Abbandono questo scavo e me ne torno tra i miei sciamani, lasciandomi amare dalla mia curandera. Mi affido alla mia solitudine e il resto è solo parziale.
    Questa notte, con la luna che raccoglie intorno a sé tredici stelle, pianterò un albero di silenzio.
    Intanto la storia preme sul silenzio, ma è la musica che ci regala il sublime.
    Nei miei canti sciamani la musica e le danze sono estasi.
    Cantami a diva bendata l’amore che mi dai ed io resterò il tuo cantico nel mio canto sul mare.
    I suoni dei tamburi sono nel vento e le parole sono stati custoditi dal silenzio.
    Ogni gesto è il simbolo di una preghiera.
    6. Racconterò il Mediterraneo e ascolterò l’Adriatico in questo mio viaggio che comincia dal punto in cui Omero ereditò il suo sogno e la Grecia ha smarrito Ulisse e Penelope e Virgilio fa giungere Enea in Occidente dopo le fiamme di Troia.
    Racconterò, ma non oggi che la danzatrice bendata mi canta il suo amore tra suoni mediterranei e voci adriatiche.
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    CINQUANTA ANNI FA MORIVA ELIO VITTORINI
    UNO SCRITTORE TRA CONFORMISMO ED ERESIA
    (di Pierfranco Bruni)

    Elio Vittorini nasce nello stesso anno di Cesare Pavese. Un segno tangibile nella storia del Novecento letterario italiano. Il Sud e il Nord recitano la malinconia e l’inquieto della parola tra i naviganti che disegnano racconti. Indubbiamente la figura e l’opera di uno scrittore (e di un operatore culturale a tutto campo) come Elio Vittorini andrebbero riconsiderate. C’è un dibattito in atto (che non riguarda comunque solo Vittorini ma la lista si allunga e va da Pavese a Carlo Levi: sì, proprio il Carlo Levi del Cristo si è fermato ad Eboli, quello considerato per “eccellenza” un antifascista, da Gadda a Piovene, da Morselli a Buzzati, da Morante a Parise) nel quale si deve porre al centro dell’attenzione un processo che non può essere solo letterario ma deve avere (perché ci sono) delle “implicazioni” di ordine culturale in senso generale ma anche di ordine politico. Il caso di Vittorini è tutto giocato sul rapporto cultura - politica.
    In modo particolare su come lo scrittore, nato a Siracusa il 23 luglio 1908 e morto a Milano il 12 febbraio 1966, (a 50 anni dalla morte), concepiva il ruolo della cultura. Una cultura che non poteva e non doveva (e non deve) essere subalterna alla politica. Più volte Vittorini ha affermato la funzione prioritaria del fare cultura dentro la politica dando anche un senso etico alto alla visione della presenza politica nella società. Ciò, Vittorini, lo ha affermato da fascista (da fascista di sinistra, si obietta) negli anni del “suo” fascismo. Ciò lo ha affermato quando si trovava vicino agli ambienti comunisti. Ciò è stato sottolineato in un mio libro edito dalla Nemapress qualche anno fa dal titolo “La sfida dello scrittore”.
    Una lunga battaglia. Ha sempre rivendicato, nonostante le sue posizioni e le sue passioni, un ruolo fondamentale alla libertà della cultura. Tanto che ha scatenato, come si sa, l’ira di Togliatti quando dirigeva l’importante voce del “Politecnico”. Ma aderì al fascismo, senza alcun dubbio, non per spirito di cordata bensì nelle sue posizioni culturali vi erano delle impostazioni etiche. Aprì successivamente nel versante di sinistra un taglio (un taglio anche generazionale) che doveva provocare una forte dialettica. Ma fu fermato.
    Giovanni Raboni, recensendo, sul “Corriere della Sera” del 10 gennaio 2001, il libro di Crovi che sottolinea vittorianamente il rapporto “cultura e libertà” ripropone questo taglio e afferma: “In realtà Vittorini dal Pci non ebbe il bisogno d’andarsene perché, semplicemente, non c’era mai stato; o meglio, c’era stato, (pur non prendendone mai, credo, la tessera) ma solo con il cuore, non con la testa; e fu precisamente questo, negli anni che seguirono e fino alla sua morte prematura (febbraio ’66), a dare un particolare peso e un particolare significato al suo modo di intendere e praticare ciò che si chiamava allora (e non ci sarebbe niente di male, secondo me, a chiamare ancora) l’ ‘impegno intellettuale’”.
    Il fatto più importante in tutto questo nuovo percorso che ci porta ad una rilettura degli scrittori del Novecento è che spontaneamente si allontanarono dal comunismo. E Vittorini fu, in un certo senso, un po’ profetico. Ruppe con Togliatti sul piano culturale mantenendo sempre una coerenza progettuale in termini libertari. La cultura o è libertà o non è. Così il ruolo dello scrittore. C’è una attenta osservazione di Vittorini nella quale si ascolta: “Uno scrittore, lo voglia o no, è sempre socialmente e politicamente impegnato, tra le righe della sua opera… ma a parte questo impegno fatale d’ogni lavoro creativo è certo desiderabile che lo scrittore intervenga esplicitamente e prenda posizione nelle contese civili del suo paese. Non di continuo tuttavia. Non ogni volta che il gallo canta. Io anzi raccomanderei di farlo solo nei momenti di emergenza. Altrimenti succede che lo scrittore se ne fa un vezzo, un puntiglio, un abito e l’abito è un callo intorno alla mente che ne riduce e può addirittura annullare la sensibilità storica e ideologica”.
    Non si tratta di una raffigurazione di un intellettuale organico politicamente. Anzi il disegno è piuttosto quello di un intellettuale libero pronto però ad intervenire senza lasciarsi condizionare. Dà, comunque, allo scrittore la funzione di un intellettuale vero e proprio. Ebbene, possono esserci aspetti condivisibili o meno (proprio sul rapporto intellettuale - scrittore o sulla simbiosi dello scrittore nell’intellettuale: trattasi di una visione vittoriniana che non è quella di altri scrittori del suo tempo come, per esempio, Pavese) ma Vittorini considera il lavoro culturale come un impegno e quindi anche il dato creativo risulta uno degli impegni intellettivi che rientrano, appunto, nella funzione dell’intellettuale.
    Pur non condividendo fino in fondo la posizione di Vittorini (su questo versante) ho sempre nutrito una stima particolare per il coraggio di alcune scelte maturate non su impostazioni ideologiche ma su tracciati interamente culturali. La divisione degli intellettuali ex comunisti separati in due tronconi (di cui parla Raboni riferendosi ad un articolo raccolto da Crovi) che ne fa Vittorini è, vista nel contesto attuale, emble-matica. Profetica allora. Ci sono quelli che hanno considerato il comunismo come un Dio e quindi oggi lo valutano come un Demone, ovvero un Diavolo. Ci sono quelli “che hanno considerato il comunismo entro limiti umani” nel momento in cui vi aderivano e quindi “umanamente” non lo accettano più.
    Non si tratta di una abiura ma di una presa d’atto, ovvero di un atto di consapevolezza che Vittorini affidava alle pagine de “La Stampa” nel 1951. I grandi fatti che si verificheranno con il Congresso ventesimo del comunismo moscovita e internazionale sono di là da venire. Eppure Vittorini aveva detto tutto, addirittura si era spinto anche oltre. Quelle sue parole sembrano scritte oggi. E nulla valse l’ironia di Togliatti.
    Vittorini lasciò i “compagni” convinto della libertà che bisogna dare alla cultura e sprezzante Togliatti commentò in un articolo rimasto famoso: “Vittorini se ne ghiuto e soli ci ha lasciati”. Ma questo Vittorini era lo stesso di quello che aveva scritto Garofano rosso e che aveva fatto dire al suo personaggio Alessio Mainardi, dopo l’uccisione di Matteotti, “troppo fiero di essere fascista”. Un po’ alla Malaparte, inquieto e dannato. Ma fascista lo fu veramente. Senza ombra di dubbio. Tanto che venne espulso. Ma continuò a scrivere liberamente sui giornali di quel tempo. Fu tanto per un organizzatore di cultura che poneva al di sopra di tutto la libertà. Con Togliatti non gli fu possibile.
    Ecco cosa scrive Giulio Ferroni, storico della letteratura non chiaramente di parte o sospettabile ideologicamente: “Insieme ad altri fascisti di sinistra ed ex fascisti (…) seguì con drammatica partecipazione gli eventi della guerra civile di Spagna schierandosi dalla parte dei repubblicani e criticando il sostegno dell’Italia fascista alle forze reazionarie e clericali: divenuto elemento sospetto, venne espulso nel ’36 dal partito fascista. Si accostò allora all’opposizione antifascista e ai gruppi comunisti clandestini: e mentre continuava a svolgere un massacrante lavoro editoriale, scrisse il suo libro più significativo, Conversazione in Sicilia, apparso su ‘Letteratura’ tra il ’38 e il ’39. Nel 1939 si trasferì a Milano, dove cominciò a lavorare per Bompiani e per altri editori…”.
    Anni cruciali di intenso lavoro culturale. Si pensi anche al lavoro di traduttore svolto in quegli anni. Da Lawrence a Poe, da Faulkner a Steinbeck. Da Defoe a Caldwell. Ma tutto sommato credo che la sua presenza di scrittore (io faccio questa separazione al contrario dello stesso Vittorini) sia più rilevante di quella di operatore culturale. I suoi testi narrativi confrontati con la sua visione teorica e critica dell’impegno dell’intellettuale hanno una rilevanza maggiore e in molte occasioni si respira una impostazione contradditoria. Conversazione in Sicilia non è il libro scritto da un intellettuale. E’ piuttosto un testo scritto da un poeta. La sua visione realista è in netto conflitto con una forte tensione poetica che aleggia nel libro. Come pure il bel Viaggio in Sardegna ripubblicato successivamente con il titolo Sardegna come un’infanzia o ancora Le donne di Messina.
    Percorsi lirici che hanno una valenza onirica. Ma Vittorini, come scrittore, resta un testimone del raccordo tra memoria e racconto lirico. L’intellettuale è un’altra cosa dello scrittore che cesella: “I piccoli siciliani, curvi con le spalle nel vento e le mani in tasca, mi guardavano mangiare, erano scuri in faccia, ma soavi, con barba da quattro giorni, operai, braccianti dei giardini di aranci, ferrovieri con i capelli grigi a filetto rosso della squadra lavori. E io, mangiando, sorridevo loro e loro mi guardavano senza sorridere”.
    Rileggiamolo questo ricercare “in viaggio”, una “conversazione” che ci porta al centro del nostro esistere. Lo scrittore e l’intellettuale. Dove comincia lo scrittore e dove subentra l’intellettuale. Riconsiderarlo significa anche capire di più senza lo sguardo ideologico. La malinconia e l’inquietudine. Il viaggio nella cifra del destino. O forse un intreccio che ha segnato un’intera epoca.
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    Il MEDITERRANEO E' DISARMONIA TRA REALTA' E CIVILTA'
    (di Pierfranco Bruni)

    Il sentimento della grecità, per la cultura occidentale, vive in un intreccio in cui l'orizzonte di civiltà è rappresentato dall'idea del Mediterraneo come crocevia di modelli non solo storici ma anche esistenziali. Ci sono processi culturali antichi che si offrono come modelli di identità. Non si può vivere senza modelli e tanto meno senza le tracce identitarie.
    Il Mediterraneo, in fondo, congiunge due disarmonie cercando di tenerle insieme attraverso elementi storici. Ma ormai non bastano più. La storia unisce e divide. E' stato sempre così. La letteratura crea, invece, dimensioni di comprensioni grazie ad una visione cosmica che ha ragione di esistere solo se sopraggiunge una forte consapevolezza delle diverse identità che qui potremmo anche legittimare come forme di etnie. Perché la letteratura si intaglia tra le maglie di queste etnie che riportano tutta la nostalgia dei popoli.
    Appunto, la letteratura è la unione dei linguaggi. Perché i linguaggi non sono solo istanze espressive o "movimenti" di comunicazione. Sono soprattutto una offerta di simboli e di segni attraverso i quali si tocca non la parola o le parole ma si tracciano miti. I miti che sono il portato (o il "rimasto") delle civiltà. Sono il passato in quanto trasmissione di una memoria e proprio per questo si fanno tradizione.
    La grecità non può che essere letta come l'incontro e la separazione e ancora la separazione e l'incontro tra Occidente ed Oriente. Luogo sacro e luogo laico diventano un parlarsi e un ascoltarsi costante. Si fanno dichiarazione letteraria. La letteratura è una chiave di letteratura fondamentale per capire la coscienza di questi due mondi e di queste due civiltà.
    Byron aveva ben capito i segreti di queste due culture. Due sentimenti in un unico viaggio. Grecia ed Oriente, per Byron, si miscelavano. Bisanzio e Atene. La letteratura si serve della memoria. Il sentimento della grecità vive sul filo di una riappropriazione che è quella profondamente omerica. Ma Omero è l'esistere della memoria. E' quella nostalgia alla quale si faceva cenno che non abbandona mai la nostra anima e il nostro sentire il tempo. Tutto ciò che resta di un mondo scomparso resta perché si ha la capacità di leggerlo sotto le spinte dei simboli o del mito. Altrimenti con la sola ragione della storia non infonderebbe emozione e sentimento. Resta tutto ciò che noi abbiamo la capacità di filtrare come passione poetica, o come tensione poetica. E resta dentro di noi come incancellabile destino.
    Ha così scritto Maurizio Bettini nella Introduzione a In Grecia. Racconti del mito, dell'arte e della memoria di Donatella Puliga e Silvia Panichi: "Oggi possiamo - anzi, dobbiamo - viaggiare la Grecia semplicemente per conoscere i suoi monumenti, così come possiamo leggere o ascoltare i miti greci solo per l'interesse che queste narrazioni sono ancora in grado di suscitare dentro di noi. Possiamo sederci sulle pietre dell'Acropoli e ascoltare il racconto di Teseo che scaglia in mare il crudele Scirone…".
    Ascoltare, dunque, i frammenti di un mito che lentamente penetra nella nostra vita, nel nostro tempo, nel nostro essere e ci cattura. Perché il mito non ci allontana dalla memoria. Anzi è proprio il mito che si intreccia nel racconto del quotidiano per trasformarlo in coscienza sublime. Il sublime, maestosa e straordinaria dimensione dell'estetica, vive nella letteratura. Perché il misterioso è in essa. Non si nasconde ma continua a vivere nel segreto delle parole che non restano solo linguaggi. E siamo fatti di linguaggi. Di linguaggi sconosciuti. Di linguaggi che ci riportano a degli archetipi che non si cancellano anche quando noi non ci saremo più.
    Il fascino della grecità sta proprio, dunque, in una coniugazione, (o meglio congiunzione) tra Oriente ed Occidente. Quel mare che può leggersi anche come la metafora del deserto è fatto di onde o di dune e fa avvertire sempre un orizzonte nelle lontananze dello sguardo. Siamo dentro questo orizzonte che inseguiamo ma che non smette comunque di inseguirci.
    Sergio Valzania in Tre tartarughe greche annota: "A ben guardare tutta la Grecia è un lembo di terra affilato proteso nel mare, a mezza via tra oriente e occidente, ma proteso anche nel tempo, fra antichità e presente. Le distanze che qui si percorrono nello spazio sono piccole in proporzione ai trasferimenti temporali ai quali costringono gli incontri che si fanno".
    Il mare, dunque, continua ad essere destino tra le civiltà. Ma popolo e civiltà sono in simbiosi e vivono nell'anima del tempo. Quest'anima che cerca l'eternità e non smarrisce quella filosofia dell'attesa che vive proprio tra quelle civiltà e quei popoli che stanno in mezzo al mare. Il mare, allora, diventa la vera anima e non solo in termini metaforici ma anche etici ed esistenziali. Si legge nel testo di Donatella Puliga e Silvia Panichi: "Memoria, ricordo, durata, permanenza: concetti che se riguardano ogni tipo di racconto mitico, sono a più forte ragione intrecciati a quello di Orfeo, in cui si realizza un misterioso cortocircuito tra il tempo e l'eternità".
    Tempo ed eternità! Ma a quale viaggio apparteniamo? Non possiamo non sentirci Greci ma non possiamo non avvertire nella nostra coscienza il graffito di un Mediterraneo che non è solo Occidente. Il destino che graffia lungo le pareti della nostra anima è un tracciato indelebile sul quale non possono che sussistere radicamenti e altri radicamenti e altri destini ancora.
    Quell'Oriente che entra nell'Occidente e viceversa è un insieme di simboli che non può che dichiararsi se non attraverso i fogli del simbolo. Ed è qui che la letteratura si fa rivelazione. Anzi si fa redenzione. La letteratura, in fondo, ha la capacità di redimere. Perché ha altresì la capacità di trasformare l'istante in ricordo e il ricordo in memoria.
    L'identità è una lunga memoria che penetra dentro il costato del tempo. non possiamo non dirci Greci ma Greci dentro il Mediterraneo. Un Mediterraneo che non ha solo un processo storico da difendere e da offrire ma anche, forse soprattutto, una grande nostalgia, che proviene dai popoli e dalle culture che lo hanno attraversato e lo hanno vissuto, da proporre costantemente.
    Il rapporto mare - terra è un intreccio che ha coinvolto un legame forte tra Oriente ed Occidente. Il tema del viaggio è un tema assillante all'interno delle letterature antiche, nelle quali il mito è una definizione che supera la storia. Il mito è nato per dare al tempo una leggenda profetica e per andare oltre la realtà stessa. Uno dei grandi studiosi che ha approfondito questa materia è Carl Schmitt. Il destino di un popolo si traccia sulla linea che ha segnato le sue radici, le sue origini, le quali diventano, appunto, appartenenza.
    L'intreccio tra terra è mare è in Schmitt una memoria depositata. Ma i processi che intaccano queste visioni hanno delle derivazioni bibliche. Il pensiero meridiano non è un fatto che nasce da una creazione della sociologia comparata. E', invece, una metafora costante che regna proprio nei testi biblici. Il Mediterraneo non è attuale in termini politici, geografici, economici. Il Mediterraneo è stato sempre una consapevolezza nelle culture sommerse che hanno attraversato l'Occidente e l'Oriente. Una metafora che è continuata e si è impossessata di quel destino che segmenta la vita degli uomini e dei popoli.
    Sono i popoli che hanno reso il Mediterraneo storia e dopo l'attraversamento storico è leggibile come dimensione mitica. Non in senso che racconta sfere della mitologia calata nella modernità. Il Mediterraneo non è né attuale perché è il sempre che lo caratterizza e non rientra neppure come modello di discussione contemporanea. Diciamo, invece, che è la modernità che si è impossessata della straripante allegoria del Mediterraneo. Ormai siamo capaci di ficcarlo in ogni discorso. E non mi pare che possa continuare così. Occorre chiarirsi. Se non riusciamo a leggere il Mediterraneo come elemento di una spiritualità in un intreccio tra il mito omerico e la sacralità biblica continueremo ad accarezzare semplici soddisfazioni ma che restano soltanto tali perché, in fondo, non hanno la forza di costruire. Il Mediterraneo, invece, ha realizzato civiltà, ha inventato culture, ha formato i popoli.
    La memoria di un popolo si trasforma in un processo politico se resta fedele ad alcuni principi fondanti che sono il dato ereditario e il dato profondamente religioso. Non ha senso il Mediterraneo senza il pensiero cristiano. Gli ereditarismi hanno un senso non sul piano storico né su quello sociologico ma su un piano prettamente etico. I popoli che hanno viaggiato il Mediterraneo e si sono parlati lungo la linea tra Occidente ed Oriente sono i popoli che raccontano la nostalgia di una civiltà.
    La nostalgia serve se riesce a proiettare modelli di cultura che abbiano alla base una testimonianza spirituale. La cultura laica, quella sclerotizzatasi nell'enfasi dell'ideologismo, ormai non riesce più a parlare, a dire, a progettare. Si è aggomitolata in un radicalismo che ha perso i contatti con la realtà. E pur di apparire si mostra con le sue confusioni.
    Bisognerebbe recuperare la religiosità del Mediterraneo. Ma recuperarla nella sua interezza, nella sua profondità e anche nel suo valore misterico. Il Mediterraneo è un popolo che ha fatto della meditazione una ragione d'essere. E' un popolo, in fondo, che ha fede, che vive l'attesa come un segno profetico. Un popolo contemplativo e come tale è un popolo che sa pensare e che sa difendere la sua tradizione sul banco di prova dell'operatività e dell'intervento. Perché pensare è anche progettare. In fondo come ebbe a scrivere Fernand Braudel: "Il Mediterraneo è una buona occasione per presentare un 'altro' modo di accostarsi alla storia". In quanto per dirla con George Duby: "Non abbiamo ripudiato la vecchia eredità: solo, abbiamo scelto di stabilirci nella sua parte tenebrosa".

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    GUIDO GUINIZZELLI:
    UNA LINGUA E UNA CANZONE NEL VISSUTO DELLA MODERNITÀ
    (di Pierfranco Bruni)

    La canzone di Guido Guinizzelli, nato a Bologna nel 1235 e scomparso a Monselice nel 1276, a 740 anni dalla morte, è uno dei punti di riferimento di una lirica che diventa canto in una visione che è onirico – amorosa e diventa il riferimento non solo per Dante Alighieri, ma per tutto il modello stilistico che da Petrarca giunge a Leopardi e dalle liriche amorose di Carducci sino a Pavese.
    Nell’intreccio post ermetico di Ungaretti, Guinizzelli ha una sua presenza, come la si avverte nella ricercatezza linguistica del Pirandello poeta che recupera il senso della parole delle origini nel suo stile. Guinizzelli è un riferimento: “Al cor gentil rempaira sempre amore”. È un riferimento che va oltre lo stesso Dante perché si intreccia con le Rime e con la Vita Nova e si rintraccia nella tentazione sognante di Petrarca.
    Con Petrarca si apre, chiaramente una stagione, di “chiare e dolce e fresche acque”, in cui l’acqua è la metafora – simbolo di una estrema purezza amorosa che in Boccaccio diventerà sensualità scavata nell’eros. Siamo al conflitto, che mai si risolverà, tra il lirismo medievale, con l’assorbimento delle culture e delle lingue arabo – mediterranee, ben riscontrate addirittura nel Novecento del Mal giocondo di Pirandello, che troveranno nel Poliziano il contatto estremo in un attraversamento melanconico che si ascolta in Guido Cavalcanti.
    Guinizzelli il nodo dal quale il verso di Dante diventa tanto gentile sino a recuperare il Guinizzelli di: “Foco d’amore in gentil cor s’aprende/come vertute in petra preziosa,/che da la stella valor no i discende/anti che ’l sol la faccia gentil cosa”. Sì, Dante si innerva in Guinizzelli! Ma c’è il “foco d’amore” che caratterizzerà la passione esuberante di D’Annunzio. Un D’Annunzio tutto proteso verso la “gentil cosa” e la luce delle stelle. Linguaggi che sono antropologie dell’essere.
    Una dinamica della parola che si fa espressione lirico – esistenziale, perché il poeta, pur non staccandosi mai dalla supremazia del cercar la parola bella, lega la leggiadria al sentimento. Lettura che adotterà Pavese per i suoi ultimi versi di Verrà la morte anche se lo strumento stilistico e la visione esistenziale sono completamente diverse. Il Guinizzelli crea la Canzone non la poesia come tradizione vuole. La poesia nasce all’interno della Canzone considerata tale dalle letterature che hanno saputo intrecciare le culture Orientali con quelle sicule – toscane. Un linguaggio – lingua nel cor trafitto.
    Come in questi magistrali versi in cui Guinizzelli non li recita ma li canta: “Amor per tal ragion sta ’n cor gentile/per qual lo foco in cima del doplero”. E ancora: “Splende ’n la ’ntelligenzia del cielo/Deo criator più che [’n] nostr’occhi ‘l sole:/ ella intende suo fattor oltra ’l cielo,/e ’l ciel volgiando, a Lui obedir tole”.
    Ecco, dunque, gli elementi, in una cerca di profonda religiosità e ammaliante sacralità, che sono strettamente parte integrante di un “canzoniere” che abbandona completamente la filosofia per farsi senso di un “vocalizzo” di un canto che ha la liricità degli echi e della cultura dei trovatori – viandanti. La canzone è come se fosse una preghiera e la si canta quasi in posizione orante nell’ascolto di questo ondulare: “ …così lo cor ch’è fatto da natura/asletto, pur, gentile,/ donna a guisa di stella lo ’nnamora”.
    Un verseggiare che diventa modello condizionante per la poesia successiva, soprattutto per quella poesia che viene considerata, nelle epoche immediatamente successive, canzone e i Canzonieri sino a Saba cercano di strutturarsi sulla linea di una continuità di un recitativo poetico che diventa essenza della parola – linguaggio e dimensione onirica. Guinizzelli resta il legame al quale spesso bisogna ritornare non solo per interpretare Dante, ma anche per capire lo sviluppo delle poetiche che arrivano sino al tardo Novecento.
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    A CENTODIECI ANNI DALLA NASCITA DI SANDRO PENNA
    (di Pierfranco Bruni)

    Ci sono ambiguità nella poesia di Sandro Penna (Perugia, 12 giugno 1906 – Roma, 21 gennaio 1977) che vanno lette e la lettura non può che partire da dati prettamente letterari, ovvero poetici. La poesia come valore assoluto o come dimensione estetizzante. La sua esperienza poetica si colloca nella temperie culturale caratterizzata dalle avanguardie e dalle riviste. I suoi rapporti con la poesia ermetica, nonostante tutto, furono intensi e giocati sul filo dell'ambiguità. Ma tutto il suo viaggio umano e poetico è un viaggio all'insegna dell'ambiguità. Nella sua poesia ci sono scatti improvvisi e una tensione lirica che ci riporta ad immagini pascoliane e più propriamente si ascoltano derivazioni sabiane. Umberto Saba infatti, come da più parti ribadito, resta un poeta con il quale Penna ha sempre trattenuto un legarne stretto. È Saba a leggere le sue prime poesie. È Saba a dargli i primi consigli e i primi suggerimenti. Un percorso importante in una temperie storica e letteraria complessa.
    Il suo primo libro di versi risale al 1939 dal titolo Poesie. Seguono Appunti, Una strana gioia di vivere, la raccolta completa di Poesie, Croce e delizia, Tutte le poesie (è del 1970 e raccoglie tutte le raccolte precedenti), Stranezze, Il viaggiatore insonne, Rombo immenso e Confuso sogno. Queste ultime tre raccolte escono postume. L’ultimo titolo è una estrema metafora del gioco eros e tempo.
    In Sandro Penna è come se si rifiutasse il mondo degli adulti. Ma non come succede in Pascoli. Non come succede in Saba. Il suo rifiuto è totale. È una poesia fatta di sogni. La realtà è altrove anche se Penna dovrà convivere costantemente con la realtà. Ma il fanciullo di Penna è un "confuso sogno". Perché è soltanto nel “confuso sogno” che la realtà può farsi fantasia e servirsi delle piccole metafore che accompagnano la vita. Non abbandona neppure per un istante la gioia di vivere. È in questa gioia di vivere che la tristezza viene ad essere sconfitta. La sconfitta della tristezza apre spazio alla grazia. C'è anche un dato che ci porta sul versante puramente critico. In Penna il realismo, se di realismo può parlarsi, non si traduce mai in impegno. È lontano da ciò che negli anni passati veniva indicato con il termine di poesia impegnata. È una poesia della "vaghezza". È una poesia che gioca all'interno della problematicità stessa dell'esistenza. E si fa attesa. L’attesa è un tracciato nel tempo. In quel tempo che esplode con voci di ricordo. (Sandro penna e Pasolini)
    Il tema del viaggiatore è appunto un tentare di penetrare l'ansia di un'attesa. È un'attesa mai colma. Proiettata nel futuro come è sempre proiettato nel futuro il viaggiatore. “Il viaggiatore insonne/ se il treno si è fermato/ un attimo in attesa/ di riprendere il fiato/ ha sentito il sospiro/ di quel buio paese/ in un accordo breve”. Versi che non smetto mai di ripetere perché hanno un respiro profondo e una visione estetica abbastanza proiettata verso il senso del bello.
    Il tema dell'attesa è, dunque, un corollario importante. Ci sono altri segmenti che affollano l'itinerario poetico penniano. Per esempio l'infanzia, i paesi, l'estate e i personaggi. Pensiamo ai bianchi marinai. Pensiamo nuovamente ai fanciulli, pensiamo alle metafore del viaggiatore. Perché forzare la mano su poesie che vengono ritenute "scandalose"? Non è questione di pudore ma di penetrare quei tessuti letterari che sono un insieme di modelli lirici e stilistici in termini anche di proposte semantiche.
    Il fatto sta nel costatare la resa stilistica. È qui il punto. Occorre meditare con il coraggio della criticità se si vuole rendere realmente giustizia a un poeta. Occorre parlare di un poeta non solo nella sua complessità ma anche nella sua totalità. Allora mettiamo a confronto due poesie. Ecco la prima: “Io vivere vorrei addormentato/ entro il dolce rumore della vita”. È un distico stupendo. Emana una lucentezza veramente senza pari. Una poesia unica nel panorama del Novecento. Ecco la seconda: “Lascia l'orinatoio il giovanotto/ col membro ancora fuori”. Si tratta di versi banali oltre che brutti.
    Pongo una proposta di riflessione. Non è questione di fare una cernita delle poesie "umiliate". Non è assolutamente questo il problema. Il problema consiste, invece, nella scelta tra poesie che reggono ad una tensione lirica, poetica, magica e poesie che non hanno resa alcuna. Mi riferisco a un dato puramente poetico. O meglio, il discorso andrebbe spostato non tanto sulla poesia in senso globale quanto sui versi. Ci sono poesie, come quella appena citata, la cui tensione si arresta proprio perché subentrano termini che sono privi di una loro forza poetica. Bisognerebbe, comunque, dire con onestà che in Penna non tutto può avere una tenuta poetica. Ma dove è poeta Penna ha uno stile inconfondibile.
    Penna, certamente, grande poeta, come abbiamo dimostrato nel Comitato del Mibact da me presieduto, ma è anche un poeta, come tutti i poeti, che vive diverse stagioni. Nel suo percorso non c'è assolutamente una omogeneità. Bisognerebbe osservare allora le prime poesie, quelle giovanili, per rendersi conto dell'evoluzione. D'altronde, le varianti testimoniano questa inquietudine. Ecco dove si respira la vera poesia: "La vita... è ricordarsi di un risveglio/ triste in un treno all'alba: aver veduto/ fuori la luce incerta: aver sentito/ nel corpo rotto la malinconia / vergine e aspra dell'aria pungente". Ecco, invece, dove è discutibile: "Nell'orto di una villa c'è un ragazzo/ brutto, che guarda trasognato il suo/ sesso innalzato". Oppure: "Nudo piegato sulle gambe, usciva,/ dal suo corpo la cosa giornaliera./Gridò più volte, e con minore angoscia/ si risenti nel mondo e nella noia./ Guardò il sesso che apparve umile e assente./ Altra cosa pendeva: e fu con gioia,/ quasi con gioia. che guardò l'immota/ immagine invocata...". Non credo che si possa impostare un confronto tra estetica della parola e poesia in un testo del genere.
    Il discorso, certamente, è complesso e va meditato, ma una distinzione bisognerebbe pur farla. E la distinzione non consiste, come si è già detto, nel distinguere le poesie scandalose da quelle "pure". Ma il compito di chi fa critica e legge il testo deve saper anche modulare dei parametri di “giudizio”. Sempre giudizio critico letterario e non di altra natura. Perché è sul valore poetico che il discorso deve ampliarsi.
    È vero, i suoi versi nascono da una forte passionalità e da esperienze che si fanno testimonianza. Esperienze vissute e sofferte entro i limiti della propria coscienza e della propria esperienza esistenziale. La poesia è passione. È magia. È grazia. Non può essere razionalità. Non può neppure essere descrizione. E qui il discorso va articolato e le riflessioni hanno una loro precisa peculiarità sia in termini direttamente poetici che estetici. Riflettiamo, quindi, sui modelli estetici e quindi sulla poesia.
    Proponiamo elementi che abbiano una loro stesura poetica. Il Penna delle ambiguità presenta una eterogeneità di aspetti. Ed è su questo che l’attenzione andrebbe focalizzata. C’è un Penna fortemente cadenzato in una dimensione estetico–lirica. C’è un Penna che mostra una caduta letteraria che diventa caduta di stile poetico. Ma il poeta chiaramente è ben visibile come è stato, d’altronde, già ribadito.
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    IL SUBLIME E L'ESTASI DI PEDRA FRANCISCA (ANTONIA) DE LA VALLE
    Una poesia del Rinascimento (di Pierfranco Bruni)


    Il Rinascimento è il secolo in cui la poesia è attraversata dalla figura della donna come leggenda, come dama e come donna – cavaliere. È l’epoca che annuncia Cervantes, ma è anche il contesto in cui Angelica fa uscir di senno. È il tempo della pazzia d’amore e vengono completamente superate sia la voce di Saffo che quella di Eloisa. È il viaggio di Gaspara Stampa e di Veronica Franco. Poi sarà quello di Isabella Morra e quello di Pedra Francisca (Antonia) de La Valle.
    Pedra Francisca de La Valle recita con lo sguardo. Con gli occhi. Poetessa nata probabilmente a Siviglia nel 1555 o 1556. Non si hanno precise notizie sulla data di morte, ma i suoi versi, siamo a conoscenza soltanto di 21 poesie tradotte in italiano dallo spagnolo, tra il semi – sonetto e un verseggiare libero, portano come data ultima il 1629. Muore probabilmente a 74 anni.
    Dall’ultima sua poesia, datata, appunto, 30 ottobre del 1629, si evince una scrittura molto ferma il cui contenuto ha richiami di una tragica malinconia sul mare Jonio. Sullo Jonio visse i suoi ultimi anni.
    Ci sono elementi che rimandano ai luoghi geografici della Magna Grecia e al mare Greco Le sue notizie, dopo numerose ricerche, sono molto scarse.
    Ci è pervenuta soltanto questa minima raccolta, la cui parola, comunque, poeticamente ha un senso. Ha un titolo che è ripreso da una sua poesia: “A ritornar non posso”.
    Di recente è stata pubblicata una Cartella (con una mia nota introduttiva) con le sue poesie ed è stato realizzato un Video (curato da Anna Montella). Verrà dedicata una serata per il Maggio dei Libri del Mibact a Grottaglie il prossimo 14 maggio.
    Il tempo, l’amore, il tentativo di interpretare il mistero sono tre aspetti che si trovano spesso nei suoi testi. Aspetti significativi che si legano ad una costante che è il mare.
    Pare che la poetessa abbia lasciato all’età di 15 anni Siviglia e abbia abitato, con i genitori, una piccola casa nelle campagne di Todi, in Umbria.
    Qui, profondamente legata alla santità di San Francesco d’Assisi, dedica al Santo più di una poesia. Alcuni suoi versi fanno ascoltare l’eco di Jacopone da Todi e la speranza è un battello che accompagna la poetessa sino alla fine anche se il sentimento di morte si lega fortemente a quello dell’amore.
    Dopo Todi pare che abbia visitato la Calabria e sia stata anche in Puglia, fermandosi per alcuni anni nei pressi di Metaponto. In queste terre ha consumato gli ultimi anni della sua vita. La dimensione dell’amore è punto centrale nella sua poesia. Da un amore in cui la sensualità è ben marcata, si passa ad un amore contemplante, in cui la preghiera ha una forza spirituale notevole.
    La spiritualità è tutto, sembra dirci Pedra Francisca. Nella spiritualità si può vivere la bellezza. Ciò che è assente, rispetto ad un inizio “francescano” sono gli elementi della natura, il dialogare con la natura, il rapportarsi con le “creature” e il suo cantico, perché, in fondo di cantico si tratta, hanno sia una carnalità sofferta, ovvero una fisicità, sia una ricerca interiore che trova nella luce della metafisica una chiave di lettura importante.
    È una poetessa che si è formata in un clima metà rinascimentale ma è una visione di un Rinascimento che dialoga, storicamente e culturalmente, con il Barocco. Da questo punto di vista è una poetessa che sembra anticipare anche modelli che saranno foscoliani e religiosamente annuncianti quella “Grazia” che sarà successivamente di Manzoni. È naturale che conoscesse il linguaggio e la poesia di Dante Alighieri e dei poeti provenzali.
    D’altronde, il Rinascimento dovrà fare i conti con il tardo Medioevo per determinare un passaggio fondamentale che è quello linguistico. Pedra Francisca de La Valle è una poetessa nel mistero di una biografia e tutto ciò che si può dire, soprattutto oggi, è ricavabile dalle 21 poesie più tre versi, di cui siamo in possesso.
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    DA L' "ORLANDO" DI LUDOVICO ARIOSTO (Ludovico Ariosto dipinto da Tiziano)
    A UN POETA SCONOSCIUTO COME TEODORO FIORDILUNA
    le donne e i cavalieri, le armi e gli amori
    (di Pierfranco Bruni)

    Tra il Rinascimento e il Barocco si sviluppa un "fare" poesia che è contornato da un modello in cui la leggenda, il raccontare tra "le donne, i cavallier, l'arme, gli amori…" prende un deciso soppravvento. Una tradizione che trova negli incisi medioevali una dimensione onirica e di gesta che è abbastanza rilevante, e che attraversa, inevitabilmente, la stagione dell'Umanesimo per farsi voce, proprio nei processi poetici affabulistici rinascimentali e seicenteschi.
    Le presenze dei rimandi mediterranei sono tasselli simbolici forti e si intagliano in un incontro tra cultura d'Oriente e modelli occidentali di scavo latino. Meglio sarebbe dire un incontro che è scontro di culture e di civiltà tra il mondo cristiano e gli infedeli, qui per infedeli si legge musulmani.
    Si pensi a Ludovico Ariosto e alla trama e interpretazione del suo "Orlando furioso", la cui prima edizione risale al 1516, proprio cinquecento anni fa, composta da quaranta canti (verranno pubblicati postumi altri "Cinque canti").
    Oltre ad Ariosto, sulla linea che sto tracciando, insistono chiaramente sia l'"Orlando innamorato" che la "Gerusalemme liberata", il cui centro scenico è sempre la corte degli Estensi.
    Ma il dato letterario e culturale più ampio è la visione delle sfaccettature di due mondi quali sono quello Cristiano e quello Musulmano, ben definiti come Occidente ed Oriente. Definizione che nel corso dei secoli non può più ritenersi così rigida. Comunque, costituiscono, questi tre poemi, una vera e propria scuola di pensiero, oltre che una scuola poetica e letteraria.
    Una scuola che troverà nel Cervantes un punto di riferimento che è una appartenenza onirica certamente, ma è anche una eredità, in cui poesia e follia sono collegamento estremo che giungerà ad una forma di teatralizzazione, la cui sintesi verrà incarnata da Luigi Pirandello.
    Infatti è Pirandello, il Pirandello mediterraneo e siciliano di Girgenti, che porterà sulla scena le due culture, grazie agli archetipi della recita e dei pupi che diventeranno personaggi tra linguaggio e carattere.
    A questo vissuto, che parte proprio dal Rinascimento e si definisce nel Barocco per inglobarsi nella contemporaneità pirandelliana, appartiene un poeta, completamente sconosciuto, che risponde al nome di Teodoro Fiordiluna, di cui si sa nulla. Un poeta nato nel napoletano, ma vissuto probabilmente non a Napoli, appartenente al XVII secolo, come ho riscontrato da alcune ricerche.
    Ci sono alcuni versi che fanno esplicito specchio alla poesia di Ludovico Ariosto e sembrano, i versi, condensare il tutto del raccontar leggenda dell'Orlando. Si legge in una sua poesia dal titolo: "Amoreggiar e armeggiar" un viaggiare che ci conduce immediatamente all'Orlando.
    Così:

    "Ad amoreggiar non fu lungo il tempo
    se le parole tue abbiano in me lasciato lo scorticar del dolore
    sul viaggiar delle miserie umane che a nobilitate sorte non fu.

    Angelica non dea ma novella amante di Medoro
    che mai fuggì
    e speranza volle a disdegnar Orlando
    che furioso d'amor folle
    giunse a respirar lune e ciel.

    Temporal di mare e cristiani
    e saraceni
    di sangue dipinsero acque
    mai chete
    nella leggenda
    che non fu d'Oriente
    magia non assopita.

    Orlando combatter di pugna
    in terra sacra non poté
    per vincitor che non fu d'amor perso
    e luce Angelica portò
    sino a fuggir
    con l'amante suo
    sul sogno che si avverò.

    Amoreggiar e armeggiar
    ma di cuore e di bocca
    Angelica e Medoro
    si unirono".

    In effetti questi versi ripropongono il canto già conosciuto. Ciò che incuriosisce, e pone degli interrogativi letterari, è la perfezione del verso, lo stile e anche l'eleganza che assume una peculiare importanza e fa comprendere come Teodoro Fiordiluna conoscesse molto bene non solo Ariosto, ma tutta la temperie contestualizza nella poetica "cavalleresca".
    È chiaro che si tratta di una realtà poetica straordinaria e significativa sia sul piano semantico che su quello strettamente estetico – metaforico. Un percorso da riconsiderare su tre prospettive: 1. Letterario. 2. Storico. 3. Religioso.
    Infatti, Ariosto pone la sua opera intorno a questo triangolo che è rappresentato da una lingua che esce dalla "zona" medievaleggiante, da una traducibilità che va dalla letteratura ai fatti politici, da una inequivocabile rapporto tra teologia e filosofia.
    Gli amori sono intrecci che abitano un tale ambiente. Teodoro Fiordiluna va subito al nodo della questione. Amoreggiare e armeggiare. Due concetti che sono l'anima sia di Ariosto, sia di Matteo Maria Boiardo sia di Tasso.
    In Fiordiluna proprio l'incipit dell'Orlando è il segno implacabile di una familiarità con quel verseggiare. Infatti egli canta ciò che Ariosto scrisse: "l'audaci imprese io canto…".
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    PUBBLICATI I DIARI INEDITI DI FABRIZIO DE ANDRÉ
    Il poeta che seppe dare voce ai Vangeli della Buona Novella oltre le teologie di Dante
    (di Pierfranco Bruni)


    Si pubblicano i Diari inediti di Fabrizio De André. Un bel titolo: “Sotto le ciglia chissà. I Diari” (Mondadori) E’ una stella o una rugiada, un tramonto o un fuoco sbattuto dai venti. La nostalgia è un combattimento che con spilli penetra la nostra mente e l’anima. Infinito e indelebile il sognare. Un sognare che non si sostituisce alla realtà. Ma la realtà va superata e ciò che resta alla fine è l’orizzonte di un’alba o gli occhi tristi di una maschera. Piccoli dettagli di un De André che scrive, annota, sottolinea, crea geografie di righe. Un libro che considero importante per capire il lavoro di un cantautore che è un poeta. Tra i cantautori è il maestro. Su questo non ci sono dubbi. Ogni suo percorso discografico è un progetto. Si pensi a “La Buona Novella”. Sarebbe bastato solo questo testo per restare nella storia della letteratura. Perché di De André occorre parlare di un De André poeta. Oltre la teologia di Dante.
    Un fondo di mare o parole che sembrano cocci di luna. Il cantico che si fa festa nell’essenza delle parole cantate o sussurrate. E la festa si raccoglie nelle manifestazioni della vita. La vita è un viaggio nel quale si ritrovano e si perdono ,e poi diventano ricordi e memoria, gli anni. Gli anni che sono infanzia e crescono e ci aggrediscono. I vecchi non li dimenticano. Annotazione che sono dettagli. Ma i dettagli fanno la poesia. I Diari lo testimoniano. “La Buona Novella” è una “Divina Commedia”. Ecco perché diventa complicato costruire una lettura della Commedia comparata con i testi di De André. È unico anche perché costruisce un nuovo modello poetico.
    Da “Il sogno di Maria” di De André: “E tu, piano, posasti le dita/ all’orlo della sua fronte/ i vecchi quando accarezzano/ hanno il timore di fare troppo forte”.
    Ci sono i luoghi dell’anima che hanno dentro di sé i luoghi dell’essere che sono altro dei luoghi dell’apparire.
    La maschera è nell’essere e il sognatore è quel venditore di orizzonti che conosce i segni di mare e i segni di terra. I segni di luna disegnano le stagioni dell’amore. La favola racconta non solo bellezze conquistate ma anche bellezze sfiorite che tracciano incontri. Inventare l’amore sulla corda di una chitarra è far risvegliare il cuore dalle delusioni o offrire le fantasie che si sono perse per rincorrere cieli nascosti o cieli che non hanno azzurri velati di bianco. O cieli negli azzurri senza nuvole. Ma le fantasie sono giochi tra le nebbie nei destini che ognuno di noi non conosce.
    La vita è un mare e noi siamo i pescatori che buttiamo l’esca per raccogliere non si sa cosa. Ma i sogni trasformano e sognare non è modificare la realtà. E’ scoprire nell’alba una riga di cielo che può essere diversa da come noi la consideriamo.
    In “Via del campo” De André canta: “Ama e ridi se amor risponde/ piangi forte se non ti sente/ dai diamanti non nasce niente/ dal letame nascono i fior”. In “Per i tuoi larghi occhi”: “E perché non mi hai dato/ che un addio tanto breve/ perché dietro a quegli occhi/ batte un cuore di neve”. In “Barbara” prévertianamente: “E il vento di sera la invita / a sfogliare la sua margherita/ per ogni amore che se ne va/ lei lo sa/ un altro petalo fiorirà/ per Barbara”. In “Inverno”: “Ma tu che vai, ma tu rimani/ anche la neve morirà domani/ l’amore ancora ci passerà vicino /nella stagione del biancospino”.
    E Prévert lo si ascolta passare con leggerezza in molte canzoni di De André. Si pensi alla canzone "Geordie": "Sellate il suo cavallo dalla bianca criniera,/ sellatele il suo pony,/ cavalcherà fino a Londra stasera/ ad implorare per Geordie". E poi si pensi alla poesia di Prévert dal titolo: "Aspetta e spera": "Sellate il mio cavallo/ Dice al gran sellaio/ E via in sella/ Che parte per la foresta". Immagini e sogni nella favola che racconta la vita o nella vita che cerca una favola. In De André c'è la vita e c'è la favola. La storia insuperabile è un cortocircuito. Ma è vero che “la storia siamo noi” dice De Gregori e proprio perché è fatta di noi la superiamo, andiamo oltre e la ripercorriamo nella nostra coscienza.
    Sì, abbiamo bisogno di ridare senso a ciò che chiamiamo consapevolezza. Di cosa? Da “Canto del servo pastore”: “Mio padre un falco mia madre un pagliaio stanno sulla collina/i loro occhi senza fondo seguono la mia luna/notte notte notte sola sola come il mio fuoco/piega la testa sul mio cuore e spegnilo a poco a poco”.
    Consapevolezza che non significa comunque avere coscienza di quei destini inquietanti che sono negli occhi chiari incantati dalle stelle.
    L’ironia più cocente De André la rende in una visionarietà sarcastica: “… all’ombra dell’ultimo sole/ s’era assopito il pescatore/ e aveva un solco lungo il viso/come una specie di sorriso”. E le metafore incorniciano i sorrisi come in “Caleidoscopio”: “… conserveremo nell’ombra del legno/ il tuo latte d’autunno/ prima che i venti del Nord/ ritornino a frullare gli oceani”.
    “La buona novella” è una delle pagine, comunque, più esaltanti. Il fascino delle “contraddizioni” che la problematica pone in essere è forte perché la discussione non è evidenziata solo sul piano religioso (tra sacro e profano) quanto su quello etico – esistenziale.
    In termini musicali l’Oriente e l’Occidente ci riportano ai suoni di quel Mediterraneo fatto di mare e deserto, di acqua e di terra, di linguaggi e di accenti recuperati proprio per creare scenari e atmosfere che ricostruiscono un “antico” che è nelle rughe del tempo di una civiltà che conta il suo racconto visitando i “fantasmi” che si agitano sulla collina.
    La figura di Gesù ma non solo questa. O quella di Giuseppe. O quella di Maria. Ma è tutto il contesto che si apre ad una “rivoluzione” che riguarda il linguaggio come parola, il linguaggio come musicalità, la tensione come stretta di un lirismo tra la fede e la laicità .
    De André ricostruisce il sogno di una tradizione attraverso le trasgressioni della storia non ufficiale. E bisogna saper ascoltare. E’, indubbiamente, una delle pagine più toccanti e più esemplari di un percorso che ha visto nei capovolgimenti ufficiali il dettato della sua recita canzone – poesia.
    Ne “Il ritorno di Giuseppe” il finale è “testamentario”. “E a te, che cercavi il motivo/ d’un inganno inespresso dal volto,/ lei propose l’inquieto ricordo/ tra i resti d’un sogno raccolto”. Conflitto e contraddizione ma anche sfida all’ufficialità di una storia che non smette di stupire. Non è un fatto soltanto culturale. La fede è oltre ogni atto soltanto storico perché il mistero è l’alito del tempo che ci avvolge. E’ appunto il mistero che diventa rivelazione.
    “Per me sei figlio, vita morente,/ ti porto cieco questo mio ventre,/ come nel grembo, e adesso in croce,/ ti chiama amore questa mia voce./ Non fossi stato figlio di Dio, /t’avrei ancora per figlio mio” (da “Tre madri”).
    Una contraddizione che ha una valenza certamente religiosa considerata la canonicità delle ufficialità ma letterariamente trova un codice espressivo di alto livello culturale.
    Pur sapendo che la fede non è cultura. E anche in questo caso la fede non è cultura ma ricerca costante di rivelazione, di mistero, di innovazione e di rivoluzione proprio sul piano di una interpretazione esistenziale. La metafora è la costante che fa di De André un interprete di un attraversatore della decadenza e dello sfoltimento delle ideologie. Non solo in questo caso. Il suono e la parola sono una magia che viaggiano lungo quei sentieri che hanno voci e sogni.
    Le voci e i sogni sono un viatico poetico e simbolico che trova appunto ne La buona novella una chiave di lettura fondamentale che diventa la sintesi di uno sviluppo tematico che è non ideologico ma etico, non teologico ma filosofico. Non si tratta, comunque, di stabilire la poeticità di un percorso. E’ naturale che i testi di De André hanno una radice (o meglio una matrice) marcatamente letteraria.
    “Ma adesso che viene la sera ed il buio/ mi toglie il dolore dagli occhi/e scivola il sole al di là delle dune/ a violentare altre notti:/ io, nel vedere quest’uomo che muore,/ madre, io provo dolore./ Nella pietà che non cede al rancore,/ madre, ho imparato l’amore” (da “Il testamento di Tito”).
    Una matrice che si evince sin dall’inizio. La letteratura è la traslocazione dalla realtà pur vivendo realtà e depositandola nel superamento della quotidianità e della cronaca. Ecco perché il cantico del sognatore è il sognatore che viaggia i mari, naviga i fiumi, visita le colline e dialoga con i personaggi. Con i personaggi che sono già destino.
    Da “Nuvole barocche” sino ad “Anime salve” si avverte un processo la cui centralità resta l’uomo. L’uomo non nella storia ma nella memoria. L’uomo con i suoi amori e le sue solitudini, con i suoi incanti e le sue rivoluzioni, con le sue sconfitte e le sue degenerazioni e soprattutto con il suo bisogno di ritrovarsi in questo fine millennio.
    Siamo nuvole che cercano spazi e lungo le rive di Spoon River tentano di ritrovarsi e di tenersi per mano recitandosi la buona novella mentre le rivoluzioni sono piuttosto rivelazioni su “mare di luna” e “terra di sangue” con quelle “anime” che chiedono salvezza.
    La letteratura è indubbiamente dentro la musica e la musica stessa richiama letterature che raccontano non solo il vissuto degli uomini ma anche dei popoli. E nel recitativo di un ondulare di parole che vengono dal vento ci sono le metafore che non richiamano rimpianti ma simboli.
    Appunto per questo il cantico del sognatore è un De André che canta la vita sul filo di fumo dei giorni che si consumano come una sigaretta accesa che crea cerchi nel vuote delle attese.
    Nei cerchi di fumo il tempo è solo il tempo: “dove un attimo vale un altro/ senza chiederti come mai,/ continuerai a farti scegliere/o finalmente sceglierai” (da “Verranno a chiederti del nostro amore”).
    Il tempo è solo il tempo e la memoria riporta ancora e sempre sogni. Il cantico del sognatore è un viaggiatore che sa che la stessa realtà non esisterebbe se venisse meno la tela di quella nave il cui viaggiatore è un naufrago che sa andare oltre ogni tempesta ma sa anche ritrovarsi e raccogliersi nell’isola delle fantasie.
    De André è un pescatore che si è assopito “All’ombra dell’ultimo sole” e “lungo il viso” ha “un solco” che somiglia ad “una specie di sorriso”. Il cantico è un intreccio di dita, appunto, tra letteratura e musica. D’altronde i cantastorie, la letteratura a cominciare dai provenzali cosa lasciano. De André è il poeta che racchiude l’esperienza evocativa e metaforica del pre Novecento. I "Diari" nei tanti ritagli testimoniano anche ciò.
    (nota: le foto di Fabrizio De André sono riprese da Internet: se qualcuno ne rivendicasse la proprietà ci avvisi e le toglieremo)
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    GUTEMBERG E LA STAMPA A CARATTERI MOBILI

    www.studiarapido.it/gutenberg-stampa-caratteri-mobili/ (clicca sul link a sinistra per leggere l'articolo)
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    L'ANIMA ZIGANA, I VIANDANTI E LE METAFORE ETNICHE
    (di Pierfranco Bruni)

    Gli zingari, un popolo che viene da lontano e che trasporta lungo i suoi viaggi modelli di identità e tradizioni. Nomadi, figli del vento, viandanti. Una cultura orale che è nel solco di una storia che è ricca di contaminazioni ma che è riuscita ad infiltrarsi nei segmenti di eredità e di realtà che si determinano la contestualizzazione dei territori. Sinti, Rom e Kalè. Gruppi che si mostrano con una loro fisionomia in quella dimensione dell’oralità che ha una specificità nell’essere viaggianti o nomadi, semi – viaggianti, stanziali. In Italia se ne contano circa 80.000 e sono, appunto, suddivisi in quella sopra detta specificità mentre in tutto il mondo sono circa quindici milioni. Hanno una loro cultura attraverso la quale trasmettono non solo codici esistenziali ma anche valori culturali.
    Origini antiche. Dalla storia dell’India o da Omero. I viandanti, i Gitani. Ma il loro viaggio sembra un girotondo ovvero un “nomadismo girotondo in tondo” come ha scritto Françoise Cozannet in “Gli Zingari. Miti e usanze religiose” (1975). E questo girotondo fa parte di un viaggio rituale perché senza il nomadismo non avrebbero senso gli archetipi che sono dentro quella eredità del rituale circolare. Il folclorico che è parte integrante della struttura del tempo primordiale nel quale si configurano è una recita continua in una visione di una loro immagine popolare che si tramandata nei secoli.
    Il folclorico è nella danza, nella musica, nei canti. E’ in quella concezione del bohèmienne che ha raffigurato il personaggi zingaro. Si pensi all’importanza del flamenco. Una ritualità gitana che recupera le voci di una cultura profondamente radicata nel ceppo culturale mediterraneo. La musica e la lingua costituiscono i veri modelli di un codice che pone in essere una insistenza di matrici sia occidentali che orientali, sia cristiane che islamiche. La musica è un linguaggio, è una loro parlata inconfondibile che caratterizza il loro mondo.
    Recita un canto zingaro: “Quando il dolore mi dilania il cuore,/quando non ho nemmeno un soldo in tasca,/io suono una canzone sul violino,/e lenisco la fame e il dolore.//Il mio violino ha due compagni, due/che mi succhiano il sangue del cervello:/uno si chiama Amore, l’altro Sete,/e mi accompagnano, me suonatore”.
    Il suonare è anch’esso un rituale. Come è un rituale la presenza dei cavalli nelle comunità zingare. Il mondo gitano è un mondo ricco di colori, di apparenze, di suoni che si definiscono in una vera e propria sensualità della vita. In un altro canto si legge: “Alzati, donna, su,/e accendi la lampada./Di nascosto ho condotto/tre bei cavalli bai./E a te ho portato/un grembiule di seta ricamato/con fili d’oro”.
    Una cultura della fantasia ma anche del mistero. Ma dimostra un altro aspetto particolare che è dimostrabile proprio nelle contaminazioni. La musica zigana (zingara), gitana, è parte integrante di quella cultura etnica che proviene dalla Catalogna. Ha scritto nel 1964 B. Leblon: “Il Flamenco è noto: esso simboleggerà ben presto la rinascita della Spagna… ma durante il suo sonno questo patrimonio musicale Andaluso era diventato, per i gitani di Spagna, la loro propria musica etnica. Oggi gitani di Castiglia, di Catalogna o del sud della Francia, si riconoscono in questa musica. Essa appartiene a loro”. D'altronde è proprio questa danza e questa musica che formano un linguaggio gitano ricco di simboli e la simbologia nella cultura orale zingara è fondamentale.
    Ha ragione Françoise Cozannet quando sostiene che: “Nel Flamenco, danza e musica, abbiamo l’espressione più tipica dell’anima zigana: dramma tragico del gesto e della voce, attitudine fiera e altera dell’uomo, piena di seduzione e di nobiltà anche nella donna”. Da questo punto di vista si tratta proprio di una cultura musicale della sensualità nella quale esplode tutta una psicologia del movimento che porta alla riconsiderazione di una strategia rituale. Gli zingari hanno una forma di tradizione ereditaria che non potrà scomparire perché la stessa tradizione si muove all’interno proprio di una visione circolare della vita come nella religiosità dei popoli antichi.
    Ha ben evidenziato Jean Hancok nel sostenere, da zingaro, che “le radici della nostra storia, del nostro passato sono dentro di noi; tagliare le radici vuol dire dichiarare la morte dell’albero; nessuno vuole distruggere il proprio passato; magari si può innestare perché l’albero cresca meglio, ma sono sempre le vecchie radici che fanno vivere”. Ciò dimostra che queste radici non solo sono ben impiantate sul terreno ma non possono essere recise proprio perché, come si diceva già prima, provengono da molto lontano.
    La cultura egiziana, la parentela con le lingue dell’India, l’Epifania omerica, l’oriente biblico, sono tutti elementi che vivono nell’idea del viandante che non è solo una metafora ma è il testamento rituale di questo popolo. Non solo nella gestualità ma anche nella oralità il gitano ha una lingua di grande vitalità. Così sottolinea François De Vaux De Foletir: “La lingua zingara o ròmani è una lingua della famiglia detta indoeuropea. Per il vocabolario e la grammatica si collega al sanscrito (come l’italiano al latino). Facendo parte di un gruppo di lingue indiane, è strettamente imparentate con lingua vive quali il hindi, il mahrati, il guzurati, il kashmiri” (in “Mille anni di storia degli zingari,1990).
    Popolo di migranti la cui lingua però insieme al canto alla musica-danza rappresentano quella dimensione dell’essere di un viandante che ha attraversato le geografie dei territori e ha disegnato, in un attestato di civiltà culturali, una mappa propriamente esistenziale. Certo questo bohemien, ovvero gitano, è l’espressione di una parentela con quelle eticità che non può essere considerato minoranza. Piuttosto è un modello di civiltà alta che si caratterizza per la capacità di una fedeltà alle origini che non si sono sradicate nonostante la fedeltà al nomadismo.
    Il nomadismo è una specificità perché secondo la loro identità essere “figli del vento” è appartenere a quel libro dell’esistenza che una volta sfogliato non si ripone ma ritorna ad essere riletto. La metafora di abitare il vento è una caratteristica letteraria ma è anche una indicazione che sottolinea “il loro modo di stare nel mondo”, anzi come sostiene Giacomo Scotti “vogliono essere padroni del tempo e liberi di dare del tu anche a Dio” (in “I figli del tempo”,2004).
    Radici storiche, patrimonio culturale, ritualità del flamenco, senso circolare del viaggio sono emblemi di un valore che può essere considerato etnico, in quanto valore di un popolo ma la loro diversità consiste proprio nel mostrare l’anima come un paesaggio dell’essere. D'altronde il grande poeta Rabindranath Tagore, nato a Calcutta il 1861 e morto sempre a Calcutta il 1941, cantando i viandanti nelle liriche dal titolo “Gitanjali” ci lascia questa straordinaria immagine “ Come uno stormo di nostalgiche gru/in volo notte e giorno verso nidi lontani/ tutta la mia vita si metta in viaggio/ verso la sua dimora per l’eternità/ nell’estremo saluto a te, mio Dio”.
    L’andare o il ritornare, il partire o il rincasare nel mitico girotondo delle danze rom o nel volteggiare delle pieghe dei vestiti zigani sono la rappresentazione di una fantasia che solo in quel viaggio interiore che è espressività di un reale percorrere il tempo può richiamare i segni e i miti di una cultura che va rintracciata soltanto restituendo ai riti il loro significato.
    Quindi se il folclore ha un senso la storia degli zingari è una storia di libertà nel tempo che sa usare le tracce del vento come le danze mitiche indiane protette dalla luna e dai fuochi che richiamano un’arcaica religiosità. Patrimonio di culture ma anche storie di uomini e di popoli.
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    PIRANDELLO E PAVESE:
    gli scrittori del tragico e della dissolvenza in un tempo inquieto
    (di Pierfranco Bruni)* * *

    Il senso tragico non è una visione melanconica o una inquietudine che percorre le vite, gli uomini e i personaggi nel destino teatralizzato dei giorni. È la profondità che tocca il vuoto. È l’abisso. È il profetico dolore dell’animo. Luigi Pirandello maschera la lacerazione del senso tragico con la poetica dell’umorismo. Lentamente penetra e diventa senso di morte.
    Spesso Pirandello ha pensato al suicidio. La sua vita è attraversata dal pensiero della morte. Come in Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 1908 – Torino 1950). Pirandello è stato salvato dalla scrittura ed ha fatto della sua solitudine una testimonianza di linguaggio attraversando l’essere solo.
    Nella novella ‘La trappola’ Pirandello scrive: «La vita è flusso continuo, incandescente e indistinto. La vita è il vento, la vita è il mare, la vita è il fuoco, non la terra che si incrosta e assume forma. Ogni forma è la morte. Tutto ciò che si toglie dallo stato di fusione e si rapprende, in questo flusso continuo, incandescente e indistinto è la morte». La contraddizione non si pone nel momento in cui si lega il tragico alla morte. Il tragico non è una forma. Il sublime è la caratteristica di un vissuto interiore, in cui la solitudine è la pre – scena in uno scavo che è fatto di camminamento negli inferi dell’anima. Come, appunto, in Pavese, che dal senso tragico del tempo del suo esistere, precipita nella morte, in quel suicidio più volte annunciato e che la letteratura non è bastata a fargli superare.
    Pirandello è stato salvato dalla letteratura e dalla presenza – assenza di Marta Abba.
    Invece Pavese con ‘La luna e i falò’ aveva terminato il suo viaggio che culminerà in ‘Verrà la morte e avrà i tuoi occhi’, ma non vive una presenza – assenza, bensì l’assenza e la lontananza dell’attrice americana Constance Dowling.
    Due attrici per due scrittori che vivono il senso del tragico tra la scrittura e la vita.
    Certo, Marta Abba non è Costance Dowling, ma entrambe recitano, con i ‘loro’ scrittori la terribile agonia di un amore che era nato dall’incontro di sguardi e di tenerezze, ma si era ‘pianificato’ in una dimensione onirica che è quella della letteratura e della recita. Il teatro per Marta Abba. Il cinema per Constance Dowling.
    Due scrittori di generazioni completamente diverse per due attrici che hanno in comune il mistero, la magia e fanno della recita un paesaggio di alchimie. Sia Pirandello che Pavese abiteranno la solitudine, la quale diventerà il centro e il labirinto di un mosaico che è estremamente rischioso, come, infatti, lo è stato per Pavese.
    Pirandello consegna al non finito la sua ‘Montagna’ e i suoi ‘Giganti’ che resteranno metafore e suoni, scavi di anima e metafisiche irrisolte. Nei ‘Giganti della Montagna’ (con le iniziali maiuscole) il sacro segno dell’archetipo è un mito, che non conosce la storia.
    dialoghiconleuco Con ‘Leucò’ Pavese si concede, grazie ad un dialogare con i miti e il sublime, completamente alla griglia della classicità greca che va oltre la storia stessa.
    Tra i due insiste sempre la solitudine. Quella solitudine di cui parlerà, (donchisciottescamente) Maria Zambrano, sottolineando di Pirandello: “L’uomo che cammina solitario, sconosciuto agli altri e a se stesso, è il protagonista di tutte le opere di Pirandello…”.
    Per Pavese, i suoi scritti sono ricchi di un immenso immaginario di solitudini: l’uomo solo ha pensieri che camminano nella sua solitudine, l’uomo solo è l’uomo che non smette di pensare, l’uomo che vive il mare trova la sua quarta dimensione, ovvero la solitudine.
    Insomma questo senso tragico è la chiave di lettura del suicidio e, a priori o nell’incipit dell’esistere, si ha la consapevolezza di essere condannati ad una infinita solitudine che vive di echi e di voci che giungono da antiche distanze.
    In una Lettera del 1924 Pirandello scriveva: «Io penso che la vita è una molto triste buffoneria, poiché abbiamo in noi, senza poter sapere né come né perché né da chi, la necessità d’ingannare di continuo, noi stessi con la spontanea creazione di una realtà (una per ciascuno e non mai la stessa per tutti) la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria. Chi ha capito il giuoco, non riesce più ad ingannarsi; ma chi non riesce più ad ingannarsi non può più prendere né gusto né piacere alla vita. Cosi è. La mia arte è piena di compassione amara per tutti quelli che s’ingannano; ma questa compassione non può non essere seguita dalla feroce irrisione del destino, che condanna l’uomo all’inganno» (da una Lettera inviata al direttore del periodico romano ‘Le Lettere’, Filippo Sùrico, in data 15 ottobre 1924).
    Per Pavese «…tutto il problema della vita è questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri….». Ma realmente Pavese intendeva comunicare con gli altri?
    Tra la solitudine di Pavese e la compassione di Pirandello vi sono la meditazione e l’abisso. Pavese non poteva non sottoscrivere questa osservazione di Pirandello quando afferma: «La meditazione è l’abisso nero, popolato di foschi fantasmi, custodito dallo sconforto disperato. Un raggio di luce non vi penetra mai, e il desiderio di averlo sprofonda sempre di più nelle tenebre dense » (da una Lettera alla sorella Lina datata 31 ottobre 1886).
    Pavese nel suo ‘Diario’ annotava semplicemente: «L’unico modo di sfuggire all’abisso è di guardarlo e misurarlo e sondarlo e discendervi».
    La scrittura salverà?
    Pirandello sempre nella Lettera alla sorella dirà: «Io scrivo e studio per dimenticare me stesso – per distormi dalla disperazione».
    Pavese si ‘inventerà’ il mestiere di scrivere per tentare di sfuggire a quella disperazione che lo porterà nel gorgo muto: ‘Scenderemo nel gorgo muti’.
    In entrambi si pone una questione sia culturale che estetica.
    La letteratura può essere salvifica?
    La scrittura può condurre oltre la morte pur vivendo quotidianamente il senso tragico? Antonio Gramsci si soffermò sul valore culturale dell’opera di Pirandello piuttosto che sul valore estetico, anzi disse che il primo era chiaramente prevalente sul secondo.
    Io credo che l’estetica in Pirandello sia stata centrale, come in D’Annunzio l’estasi – estetica. Ma ciò che ha salvato Pirandello dal suicidio, comunque, è stata la meditazione intensa su una ironia – umorismo che ha contrapposto il gioco delle parti tra l’io e i personaggi o tra i personaggi e l’io nei diversi personaggi in una contorsione tra recita e realtà.
    Ciò che non è stato in Pavese. In Pavese non c’è l’ironia anche se molto insistette sulla visione ironica. Quell’abisso pavesiano sarà il suicidio. Anche in Constance Pavese aveva letto il simbolico gesto dell’ultima donna con la serena consapevolezza della quiete che verrà dopo.
    La scrittura non ha salvato Pavese.
    Pirandello ha cercato nella scrittura l’abisso perché quel suo male, come dirà alla sorella Lina: «…è una tristezza profonda che ora scende all’ironia del riso, ora sale in un’empito penoso a un desiderio amaro di lagrime. E vorrei piangere, piangere a lungo, o a lungo ridere per disfogare questa mia grande malinconia ma né l’una cosa, n’è l’altra mi è data, e il pianto sempre mi fa nodo alla gola, e il riso mi muore in una smorfia fredda sulle labbra. Questo è il vero mio male ed è cagionato da un ‘anelanza’, che ha tutte le sofferenze d’una passione, d’esser migliore» (Lettera a Lina del febbraio 1889).
    Pavese è struggente ma darà per sé una risposta risolutiva e disperata: «La difficoltà di commettere suicidio sta in questo: è un atto di ambizione che si può commettere solo quando si sia superata ogni ambizione». Ancora: «È concepibile che si ammazzi una persona per contare nella sua vita? − E allora è concepibile che ci si ammazzi per contare nella propria». E poi: «Il maggiore torto del suicida è non d’uccidersi, ma di pensarci e non farlo. Niente è più abbietto dello stato di disintegrazione morale cui porta l’idea − l’abitudine dell’idea − del suicidio».
    Così è. Se ci (vi) pare!
    Davanti a questo specchio, che riflette entrambi, esiste solo il disordine, la consapevolezza del vano e del vuoto e una inquieta necessità di viversi nella solitudine o di dissolversi nel gesto ultimo.
    Pirandello e Pavese: gli scrittori del tutto e dell’impossibile, del tragico e dell’indefinibile.
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    Edited by pierpaolo serarcangeli - 25/9/2016, 19:05
     
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