Articoli della Direzione (pag. 2): letteratura - storia - critica - autori - novità

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.  
    .
    Avatar

    Advanced Member

    Group
    Administrator
    Posts
    1,231
    Location
    ROMA

    Status
    Offline
    REDAZIONE

    ========================================

    Gli altri articoli sono nella pag. 1 (vedi indice generale)

    * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *

    CARLO CASSOLA
    RICORDO DI UN GRANDE SCRITTORE
    (di Pierfranco Bruni)

    Carlo Cassola uno scrittore dimenticato? Uno scrittore volutamente dimenticato? Credo che bisognerebbe riparlare di quella linea che ha marcato, forse anche in termini controcorrente e a volte anticonformisti, con un segno particolare la narrativa italiana del Novecento. È stato recentemente recuperato grazie ad un romanzo dal quale è stato tratto un film. Mi riferisco a “Una relazione” (Einaudi). Da questo romanzo è stato liberamente tratto il film di Carlo Mazzacurati dal titolo “L’amore ritrovato”. Ma intorno a questa combinata (romanzo–film) bisognerebbe impostare un discorso articolato per offrire una riflessione più attenta sullo scrittore de “La ragazza di Bube”. Il 2017 ricorre il centenario della nascita di Cassola e il trentennale della morte. Su Cassola sto lavorando per realizzare un saggio.
    Appunto Carlo Cassola. Uno scrittore che ha intrecciato, con una eleganza di stile, il ruolo dei personaggi con il linguaggio stesso dei personaggi. Stile importante nell’espressione di una estetica di valori in cui la parola e l’immagine rivestono una loro precisa accortezza. Cassola è uno scrittore “antico”. Nato a Roma nel 1917 e morto a Montecarlo (Lucca) nel 1987. Ci sono luoghi, metafore, spazi poetici lungo il percorso di quell’iter narrante che ha visto romanzi e racconti come “Fausto e Anna” del 1958, “Il taglio del bosco” del 1959, “La ragazza di Bube” del 1960 (ottenne il Premio Strega), “Il cacciatore” del 1964, “Una relazione” terminato tra il 1962 e il 1963, “Paura e tristezza” del 1970, “Monte Mario” del 1973, “Fogli di diario” del 1974. e poi testi come “letteratura e disarmo” del 1978, “La rivoluzione disarmata” del 1983.
    Uno scrittore che ha sviluppato tematiche e aspetti anche di natura sociale ma gli elementi letterari costituiscono la vera anima dello scrittore. E in quest’anima, come già si diceva, i personaggi assumono un ruolo predominante perché sono i veri sostenitori di una intelaiatura che ha profonde matrici esistenziali ma anche realiste. Ma attenzione, il realismo che si respira in Cassola è sempre un superare le cronache e costruire intorno alla storie delle storie il cui profilo dominante è giocato appunto dalle avventure dei personaggi che entrano sulla scena con un grande spessore umano.
    I romanzi e i racconti della Resistenza (perché Cassola ha raccontato tracciati significativi che riguardano la Resistenza) hanno una passione straordinaria e sono vissuti sulla centralità del racconto e proprio per questo sono caratterizzati dalla dimensione uomo. D’altronde non per caso Fausto e Anna sono all’interno di una definizione di letteratura che esula da una dimensione puramente descrittiva perché ciò che emerge e si sostanzia, letterariamente ed eticamente, è la caratterizzazione della loro fisionomia all’interno del racconto delle storie. Ma anche la figura di Bube come pure Mario e Giovanna in “Una relazione” non offrono solo una visione documentaria bensì, nonostante lo scenario storico e drammatico di anni tragici, ci danno un tempo che può essere considerato onirico.
    *** In letteratura chiaramente è proprio questo tempo che resiste e risulta definito da dialoghi che hanno una identità esistenziale. Infatti in “Una relazione”, uno sfondo che preannuncia l’entrata in guerra dell’Italia, ciò che si percepisce con straordinaria tensione lirica è il tempo che vivono Mario e Giovanna. Non un tempo intermedio. Ma un tempo che consuma la giovinezza di entrambi e in questo tempo si consuma la bellezza di un amore nello sfregio della tristezza e di un amore che si lascia leggere anche attraverso i connotati finali del disamore e dell’indifferenza (da parte di Giovanna). Un incontro che ravviva una relazione. Un amore che sembrava finito o perduto si rianima per poi chiudersi in una definitiva resa. La forte immagine di Giovanna, in questo romanzo appena citato, è la nota forte che delinea un carattere anche se è lei che sembra offrirsi come ostaggio di una fragilità primigenia. Ma questo è solo un aspetto o un inciso nella produzione di Cassola.
    Il gioco dei sentimenti entra dentro un tempo che assume i contorni di una spiritualità che permette non solo di non dimenticare ma di ripensare una vita. Una vita fatta anche di luoghi. In “Un cuore arido” del 1961 si legge: “Io sono come i gatti, pensava Anna: mi affeziono più ai luoghi che alle persone… Era ormai una donna soddisfatta, quieta e saggia; non aveva desideri né rimpianti, e non temeva la solitudine…”. Una vita che si incontra con il tempo lungo un raccordo che è tutto un affascinante intreccio di desideri e di desiderata esistenza.
    Il racconto della Resistenza trova in Cassola non uno scrittore della verità (la letteratura non conosce la verità) ma uno scrittore che non ha mai abbandonato gli strumenti del linguaggio letterario. Questo è un merito che va al di là di ogni forma ideologica pre-costituita. E anche per questo Carlo Cassola è dentro quella storia della letteratura che non cede a condizionamenti ma si avvalora grazie a quell’unione, che resta fondamentale, tra la parola o la lingua e l’incastonatura dei personaggi. A dimostrarlo resta proprio uno dei suoi romanzi più vissuti ma anche dibattuti che è “La ragazza di Bube”.
    Intorno a questo romanzo o partendo proprio da questo romanzo la chiave di lettura in una interpretazione puramente letteraria pone lo scrittore fuori da ogni schema ideologico e lo consegna ad una matrice che non conosce apparentamenti ma soltanto dichiarazioni che hanno un incavo fortemente poetico. Non si spiegano diversamente i dialoghi e non possono trovare alcuna testimonianza gli stessi personaggi se il raccontare resta appeso ai fili o alla ragnatela del realismo.
    I raggi che il linguaggio intreccia è data dalla assonanza poetica che è dentro la creazione dei personaggi che rappresentano dei veri e propri viandanti nel tempo, il quale tempo raccoglie la storia. Cassola è uno scrittore che resta fedele alla tensione del tempo ed è questo un pregio da non trascurare.
    * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *

    IL FRANCESCANESIMO NELLA POESIA: DALLE ORIGINI AD OGGI
    La cristianità nella poesia.
    Un dibattito che si pone con San Francesco d’Assisi oltre le parole di Papa Bergoglio

    (di Pierfranco Bruni)

    Credo che sia necessario recuperare la poesia della cristianità partendo proprio da San Francesco d’Assisi. Nelle nostre vite il santo d’Assisi è il luogo del distacco, della gioia, del pensiero terreno oltre una ideologia ambientalistica cattolica bergogliana (un errore misurato quello di papa Bergoglio su San Francesco e l’enciclica ambientalista, proprio fuori luogo).
    «Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate/e serviateli cum grande humilitate». Oltre il laicismo c’è una poesia cristiana che resta e resiste in questo tempo della desertificazione. Valori e linguaggi oltre la stessa funzione politica della poetica. La poesia non ha alcuna funzione politica. La poesia è mistero.
    Chi non è capace di penetrare i silenzi del mistero e i segni dell’indefinibile della parola legga altro. Chi ha la forza, il coraggio, lo stile di credere che nella parola ci sono i sentieri incantati della preghiera legga il viaggio e il destino di quei poeti che non si sono mai assentati dalla religiosità del tempo e nel tempo hanno cercato un orizzonte di cristianità, di fede, di umanesimo. Quello vero. Da questo punto di vista il francescanesimo nella poesia è tradizione, è indefinibile nostalgia di fede, è cristocentricità.
    La speranza francescana ci introduce in un ‘camminamento’ che non è solo profetico ma anche esistenziale. Di una esistenzialità che cattura il presente ma pensa costantemente al sempre. La visione francescana è una dimensione umana e religiosa che poggia le sue base etiche e metafisiche sull’idea dell’umiltà. Ma la specificità della santità sta proprio nell’umiltà e nella carità. San Francesco d’Assisi è il Santo, tra l’altro, del dialogo. L’umiltà e la carità non sono delle caratteristiche altre. Ma sono connaturate nella pedagogia del dialogo.
    Nella poesia italiana del Novecento vi sono precisi connotati religiosi. E’ da questi segni che il valore metafisico della parola acquista una profondità che va in direzione del messaggio, il quale è comunicazione.
    La poesia religiosa del Novecento non si presenta attraverso un tessuto omogeneo; nel suo interno vi sono diversità sia sul piano linguistico sia contenutistico. Occorrerebbe meditare su questo fenomeno che, però, non ha radici nel Novecento? Le sue origini vanno fatte risalire certamente a quella grande poesia che ha in Francesco d’Assisi un capostipite importante.
    Sono appunto gli scritti di San Francesco d’Assisi che fanno iniziare un nuovo viaggio all’interno dell’uomo e della letteratura. E tre poeti del Novecento che hanno vissuto il messaggio francescano sono senza alcun dubbio Rebora, Onofri e Ungaretti. Tre modelli poetici in un secolo contrassegnato da lacerazioni e da dubbi anche religiosi. Accanto a questi andrebbero ricordati anche Comi e Fallacara, Betocchi, Luzi, Grisi , Turoldo, Testori e la mia stessa poesia per toccare i giorni nostri.
    Il punto dal quale si snodano i valori e le idee di questi poeti è Francesco d’Assisi. E’ un’epoca la nostra che va alla ricerca di un segno di salvezza, non ci sono certezze, si tenta di individuarle. Non ci si può accontentare del tempo. Il senso di morte è nel tempo. La salvezza supera il tempo e la morte. Ecco perché la parola diventata messaggio si dipinge di autorevolezza.
    Si dice che occorre individuare il centro. Ebbene attraverso un viaggio che dovrebbe superare il tempo il messaggio cristiano trova la sua più emblematica espressione.
    «Ad te solo, Altissimo, se konfano,/et nullu homo ène dignu te mentovare». Francesco d’Assisi comincia questo viaggio; il suo Cantico delle Creature è il valore poetico più alto e significativo con il quale la poesia del Novecento si è dovuta costantemente confrontare.
    Giorgio Petrocchi scrive: “È un dovere culturale leggere tutto Francesco, riascoltare e approfondire il Cantico di frate Sole, riavvicinare il Santo attraverso la sua stessa parola o quella ardente, commossa, partecipe dei primi biografi e dei tardi rapsodi, di coloro che scrivono in latino e anche dei volgarizzatori, i quali sono ben lungi dal compiere una mera opera di traduzione letterale, ma riadattano, riscrivono, rivivono il testo originale col desiderio di compiere un’opera nuova, di affidare al loro modo di scrittura il personale messaggio d’amore amore a Francesco: d’amore e di fedeltà”.
    Per i poeti del Novecento sì tratta sì di una ricerca letteraria ma soprattutto di una dichiarazione d’amore. In Ungaretti questa dichiarazione d’amore è profondamente vissuta; vi sono dei versi penetranti, sottili ove la religiosità si lega alla vita e viceversa. La «terra promessa» è una chiave di lettura francescana nella quale le tracce di una cristianità profonda hanno un sapore antico.
    Ci canta: «Cristo, pensoso palpito, / Astro incarnato nell’ umane tenebre, / Fratello che t’immoli / Perennemente per riedificare /Umanamente l’uomo, / Santo, Santo che soffri, / Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli, / Santo, Santo che soffri / Per liberare dalla morte i morti / E sorreggere noi infelici vivi, / D’un pianto solo mio non piango più, / Ecco, Ti chiamo, Santo, / Santo, Santo che soffri».
    È soltanto un esempio. Ma nella pagina cristiana di Ungaretti si riscontra quasi un dialogo mai interrotto fra il poeta e il Cristo. Francesco è in questo dialogo perché la parola ungarettiana trasuda sangue, dolore, vita.
    È, senza mascherare alcuna metafora, una «creatura». Ma nel suo itinerario questa creatura – parola lancia messaggi di una fedeltà che non si spezza e che dura. L’amore per Francesco è vivo sia in Comi che in Fallacara. Ulteriore segno della sua importanza nel contesto poetico contemporaneo.
    A tal proposito sempre Giorgio Petrocchi osserva: “L’amore per Francesco attraversa tutto il Duecento, ed è anzi una delle componenti fondamentali di quel secolo, forse in sua principale chiave di lettura. E il Duecento consegna intatto, pur in differenti proiezioni e con varietà di significati, questo amore al secolo successivo, lo affìda a Dante e al Petrarca, lo approfondisce ulteriormente, lo riempie d’altri significati, ne fa un emblema valido per tutti i tempi a venire. In tal maniera Francesco diviene un protagonista anche della nostra età, e la sua presenza addolcisce o inquieta, rasserena o turba la necessità (o semplicemente il più vago anelito) dell’uomo di oggi, calato in un ambito sociale fortemente laico, di sentire Cristo e il Vangelo” (Francesco d’Assisi, Gli scritti e la leggenda, a cura di Giorgio Petrocchi, Rusconi).
    Certo la sua presenza è una presenza viva anche se scopre l’altra faccia dell’uomo. E’ una presenza importante perché in una età di disgregazioni e dì lacerazioni la sua voce nella notte di tempesta rassicura.
    È la rassicurazione nell’inquietudine. La sua voce è preghiera. «Laudato si’, mi’ Signore, per quelli che perdonano per lo tuo amore/ et sostengo infirmitate et tribulatione».
    Ma la poesia religiosa del Novecento è forse preghiera? E’ una parola, un cantò che prega e snocciola sulla pagina tutti i grani del rosario. Il Sentimento del Tempo di Ungaretti non è anche un viaggio nella religiosità della vita? La preghiera di Francesco non è forse un messaggio rivolto alla religiosità della vita? E il Dio di Rebora è in questo viaggio. Così la Fede di Onofri.
    Accanto a Francesco vi è la figura di “Jacopone”. In Fallacara la dimensione religiosa risente del paesaggio lirico-cristiano che è in Jacopone. E recita: «Carne fiorita sei tu, Cristo in me: / dolor, dolore è questo rosso fiore, / ma se amor dico, dico, Cristo, te, / se dolor dico, dico, Cristo, amore».
    La parola cristiana trova qui, in Fallacara, una traducibilità di valori densa di significati. Il senso profondo della metafisicità che costituisce il tema dominante nella ricerca di questi poeti fa sì che il messaggio possa essere trasmesso con tutta la sua forza attraverso la parola. Ma Francesco ci ha insegnato che la parola è preghiera. È così che la parola diventa sentimento.
    Ecco ricomparire l’immagine ungarettiana. Ciò dimostra che nel Novecento la testimonianza di Ungaretti è una testimonianza che conta non soltanto sul piano del linguaggio (non ci si dovrebbe mai stancare di ripeterlo) ma anche sul piano dei valori. La sua «terra promessa» è una terra che domanda, che chiede, che pone interrogativi ma mai illude.
    È poeta senza falsi indugi, canta: «Dio, coloro che t’implorano / Non ti conoscono più che di nome?».Ma la poesia, questa poesia, resta nella tenerezza delle nostre vite come anima mai persa e come voce ascoltante in una costante immagine che è quella della Croce e del Cristo Redente.
    (illustrazioni dell'articolo, dall'alto al basso: San Francesco dipinto da Cimabue, particolare; Mario Luzi; Francesco Grisi; Giuseppe Ungaretti; un manoscritto originale di San Francesco)
    * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *

    LA PERICOLOSA UTOPIA DI TOMMASO CAMPANELLA
    (di Pierfranco Bruni)

    In tempo di leggerezze rinasce l’utopia degli eretici: Tommaso Campanella. L’utopia degli eretici tocca la realtà e si veste di sogno. Ma in quel dire e in quel fare ci sono pezzi di verità che si rivelano come segreti. E gli eretici restano nella storia e segnano, comunque, il diario delle civiltà. Così per Tommaso Campanella (Stilo, 5 settembre 1568 – Parigi, 21 maggio 1639).
    Oggi non è facile percorrere il viaggio degli eretici.
    Soprattutto, di quegli eretici il cui pensiero si pone, nonostante la diversità delle stagioni epocali, come motivo di meditazione sulla nostra contemporaneità. Ebbene Campanella costituisce una chiave di lettura, condivisibile o meno, attraverso la quale è possibile focalizzare la crisi non solo dei valori ma in modo particolare ci permette di confrontarci con quella caduta ideologica grazie alla quale l’uomo dovrebbe riemergere con una sua identità.
    C’è un Campanella che forse andrebbe riletto alla luce di una impostazione filosofica e forse etica. Il Campanella della Città del Sole e che si ritrova in quell’Utopia alla quale Tommaso Moro ha dato voce e sulla quale ci sarebbero riflessioni da spendere proprio lungo il versante ideologico.
    La Città del Sole non è un manifesto di sobrietà. Né l’Umanesimo della cultura vi può trovare tasselli per tentare una ridefinizione di un “uomo nuovo”. Tommaso Campanella scrisse questa sua opera quando si trovava rinchiuso nel carcere di Napoli e precisamente dal 1599 al 1626. C’è l’indicazione, in questa scritto di Campanella, di una società perfetta. L’utopia che, come in Tommaso Moro, al quale Campanella deve molto, raggiunge il paradiso.
    Quando si parla di società perfetta, indubbiamente, si parla di utopie. E questa utopia di Campanella è una utopia pericolosa perché non lascia spazio ad alcun dialogo. Con La Città del Sole si è alla morte della tolleranza. Se è da considerarsi come un manifesto sicuramente il rischio è abbastanza forte. Anzi c’è la teorizzazione di un concetto di società assolutista con precise sottolineature per uno Stato assolutista.
    D’altronde Tommaso Moro, al quale Campanella si ispira (non può essere diversamente), aveva già teorizzato nella città dell’utopia quella città del sole. Così in Tommaso Moro : “ In altre parole, io sono assolutamente convinto che nessuna equità nella distribuzione dei beni – e nell’organizzazione della vita umana – sia possibile senza l’abolizione del genere umano, ed anche la migliore, sarà inevitabilmente condannata a un’esistenza miserabile, faticosa, infelice. Io non dico che si possa eliminare del tutto la miseria, ma alleviarla in qualche modo è certamente possibile. Si potrebbe porre un limite al capitale o all’estensione della terra che ciascuno è autorizzato a possedere”.
    Se La Città del Sole dovesse essere considerata come una dimensione profetica o come una profezia metaforizzata il discorso diventerebbe interessante e si arricchirebbe di altri significati sia di natura politica che storica.
    Ma la realtà è un’altra cosa. La cultura dell’Umanesimo, comunque, non ha nulla a che fare né con il manifesto né con la profezia della Città del Sole di Campanella.
    Non possiamo essere eredi di Campanella. Possiamo essere eredi invece di Gioachino da Fiore o di Bernardino Telesio o di Vico . Non siamo gli eredi delle scienza e della magia. Siamo eredi invece, di una testimonianza spirituale, che ha radici profondamente religiose e che ha come riferimento in modo particolare una tradizione simbolica, mitica e sacrale. Il rapporto tra Tradizione e Mito non passa attraverso la scienza e la magia. Può esserci un raccordo tra questi elementi ma le radici sono ben altre.
    Indubbiamente, è un’opera interessante. Soprattutto, se si pensa al contesto storico nella quale è nata. Ma è un’opera sulla quale non ci si può basare come riferimento per un processo culturale di identità. In altri termini credo che Campanella sia stato troppo sovrastimato, soprattutto, per La Città del Sole.
    Un discorso a parte andrebbe fatto per Il senso delle cose e la magia. Ma anche in altri suoi scritti giovanili come Philosophia sensibus demonstrata. La parabola introduttiva di quel senso delle cose e della magia si può trovare in questa sottolineatura : “Io rispondo che tutto il mondo vive d’un comun senso, e di più ci è la sua mente, come in noi la nostra, e di più c’è il senso particolare a ciascheduna cosa diffusa del comune…”. Anche qui, comunque, la magia e la scienza interagiscono. Siamo di fronte a un trattato scientifico che ha scopi diversi di quelli che si ritrovano in La Città del Sole, anche se si profila quel “tentativo” di collaborazione, sottolineato da Alexandre Cioranescu, tra “la ragione e la fede”. Ma in La città del Sole prevale abbondantemente la ragione. Così come in Tommaso Moro che diventa, alla fine, un dato meramente giustificativo.
    In questo percorso campanellino ci sono contraddizioni di fondo. Ma questo ci interessa ben poco. Se nell’utopia regna l’intolleranza e la Tradizione è soltanto un passaggio (forse anche obbligato) che deve però permettere la stabilizzazione della ragione come fede è chiaro che sia come manifesto che come profezia è fuori da quella sensibilità di una cultura dell’Umanesimo, che pone al centro l’uomo con il suo mistero, con la sua fede e con la sua nostalgia. Nell’utopia non c’è nostalgia. Ad esso si preferisce quell’Erasmo da Rotterdam che fa l’elogio alla follia.
    Nel discorso funebre del Priore di San Giacomo a Campanella si legge: “Apparteneva alla famiglia dei più nobili da che furo gli uomini in terra. Dio mette il fiato in menti siffatte per mostrare una briciola della Sua potenza e del Suo intelletto e dona la qualitate così grande, sì e no, ogni trecento anni”.
    Una testimonianza che non vuole essere soltanto un momento di celebrazione ma una indicazione che resta a segnare le civiltà, che ci hanno accompagnato da quel 21 maggio del 1639 quando Campanella improvvisamente si spense.
    * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *

    I "FRAMMENTI" DI MORAVIA
    "I due amici", romanzo pubblicato postumo
    (di Silvana Conti)

    Qualche anno fa, nella cantina della casa di Moravia, al Lungotevere della Vittoria, è stata ritrovata una valigia, forse accantonata a causa di un trasloco e molto logora, che conteneva alcuni manoscritti inediti, perduti, dimenticati o volutamente messi da parte dall’autore.
    Si sa però che Moravia bruciava sempre i manoscritti delle sue opere dopo la loro pubblicazione, gettando le bozze nel fuoco del caminetto posto ad angolo, davanti al bel divano bianco del salotto della sua casa, davanti al Tevere.
    Quelle pagine però non erano per il fuoco; persisteva sempre in lui il progetto di concludere quel romanzo, iniziato nel 1952, ed elaborato poi in tre diverse redazioni, con alcune variazioni sull’intreccio e sui personaggi.
    Il riordino del materiale ritrovato, la suddivisione nelle tre bozze e la revisione della punteggiatura sono stati effettuati da Simone Casini, curatore delle opere di Moravia, che ha scritto anche l’introduzione al libro, pubblicato da Bompiani con il titolo: “I due amici” .
    Il nucleo narrativo del romanzo è costituito dall’ amicizia di Sergio e Maurizio, con elaborazioni dei personaggi alquanto differenziate nel corso delle varie redazioni e con alcuni spunti di tipo autobiografico, piuttosto insoliti nell’autore che, forse, rappresenta se stesso nel personaggio di Maurizio, mentre Sergio, il protagonista, potrebbe nascondere la figura di Renato Guttuso, molto amico dello scrittore.
    Ecco l’incipit del romanzo (secondo la redazione B): “Quell’inverno Sergio si era legato di amicizia con un giovane della sua età a nome Maurizio. Costui per molti aspetti era il contrario giusto di Sergio. Quest’ultimo era povero, viveva in una camera ammobiliata del centro e campava dando delle lezioni e scrivendo articoli per i giornali; Maurizio era ricco, abitava alla periferia nella villa dei suoi genitori e studiava vagamente preparandosi a una laurea ancora molto lontana”.
    Sergio è uno sconosciuto aspirante giornalista, povero e irrealizzato che coltiva però la sua idea politica, iscrivendosi al “partito”, cioè al PCI, diffondendone con passione i concetti essenziali; si sente però insoddisfatto per la sua vita modesta e il suo rapporto con Nella, la ragazza che vive con lui, ha una funzione prevalentemente “consolatoria”, come scarico delle frustrazioni della meschinità quotidiana. Sergio non sa raggiungere un completo coinvolgimento affettivo per il timore e l’incapacità di abbandonarsi ad un vero sentimento, anzi, le frustrazioni quotidiane alimentano in lui un senso di disprezzo crescente verso la ragazza, al di là dell’istintiva attrazione fisica.
    Sergio vuole analizzare il motivo di questa sua ostilità e si domanda:”Perché questo disprezzo? La storia dei nostri rapporti e insomma tutta la storia che intraprendo di narrare, è in fondo la storia di questo disprezzo”. Questo tema riemergerà in altre produzioni di Moravia.
    Nella (o Lalla) chiede spesso a Sergio un po’ più di amore, lamentandosi dell’asprezza del compagno che talvolta scarica su di lei la propria rabbiosa violenza, accresciuta dall’insoddisfazione per quel tipo di vita che è costretto a fare.
    Le giornate scorrono monotone e uguali: la camera ammobiliata, la trattoria all’angolo, il solito caffè, i soldi sempre più insufficienti, il poco lavoro di Sergio e i momenti consolatori dell’amore.
    A volte Sergio prova una forte ostilità per la ragazza che invece lo ama veramente, offrendogli un sentimento di completa devozione e dimenticando ogni altro interesse per lui.
    “…Si addormentavano confusi e amalgamati in una sola carne, stretti l’uno all’altro, forse più ancor che dal desiderio (,) dalla necessità di consolarsi a vicenda e di sentirsi l’uno vicino all’altro.”
    La ricerca del conforto attraverso l’unione fisica (intesa come momento di pacificazione), riappare in molti punti del romanzo : Sergio è disgustato anche di se stesso e nauseato da un lavoro senza speranza; cerca un rifugio alla delusione e alla rabbia che sente in sé e lo trova nella donna che, però, rimane sempre in una posizione secondaria rispetto alla sua ideologia politica.
    ”… Mi pareva abbracciandola di tornare bambino e di ritrovare nella sua carne offerta e fremente un ultimo riflesso della consolazione materna”.
    Nella piccola camera ammobiliata i due giovani si abbracciano, si baciano, si stringono in innumerevoli movimenti e atteggiamenti, descritti analiticamente dall’autore che sembra osservarli con attenzione e partecipazione.
    Maurizio è esattamente l‘opposto: di Sergio: giovane di famiglia agiata, di intelligenza brillante; sembra quasi condividere a tratti le idee dell’amico, pur non aderendo al suo impegno politico ed ecco la soluzione di un “baratto” che a un certo punto si insinua nella mente di Sergio: forse per prevalere sull’amico, “prendergli l’anima”, attraverso lo scambio di un essere umano, cioè proprio di Nella, la sua donna innamorata e devota, offerta a Maurizio per ottenerne l’adesione al partito (la “conversione “al PCI), come l’autore la definisce non senza un po’di “autoironia” perché Moravia non volle mai iscriversi a partiti politici, nonostante le sollecitazioni dei suoi più cari amici.
    Questa idea centrale è stata diversamente elaborata nelle tre redazioni di questo romanzo che non ha mai visto la luce, ma le tre “bozze” risultano ugualmente approfondite ed avvincenti, nonostante il brusco spezzarsi della narrazione dopo un certo numero di pagine.
    Forse lo stesso autore non era convinto dell’attendibilità di una simile situazione, così estrema, ma, nella terza redazione parla in prima persona, come se fosse più immedesimato e volesse intendere un sottofondo della sua storia autobiografica; però nella sua vita Moravia non è mai stato né amareggiato e povero come Sergio né ricco e prevaricante come Maurizio.
    La donna, chiamata in un primo momento Lalla, poi Nella manifesta una docilità e una dedizione totale a Sergio, con cui condivide la camera ammobiliata, avendo perso anche il lavoro, proprio a causa del comportamento di lui. E’ insoddisfatta della povertà e dei suoi vestiti, vecchi e rammendati che (come quelli di Sergio) li fanno sembrare “una bella coppia di straccioni”, nonostante la ricchezza della massa preziosa dei capelli ramati e il suo sguardo “stellante” sempre teneramente rivolto verso di lui, come unico punto di riferimento nella sua vita; le loro giornate uguali, prive di contatti sociali, sono riempite da quello che essi stessi definiscono: il “divertimento dei poveri”.
    Dall’altro lato c’è la villa di Maurizio a Via Bertoloni e Sergio, invitato dall’amico a una festa, vuole portare anche Nella , per realizzare quel famoso “scambio” che ormai gli è entrato profondamente nella testa.
    La donna accetta, dopo una lunga resistenza e, sotto gli schiaffi, i calci e gli insulti di Sergio, alla fine si presta a diventare oggetto di baratto perché egli possa tenere in pugno Maurizio e convincerlo ad abbracciare le sue idee politiche.
    Nonostante la sua sensazione di disprezzo verso la giovane amante, Sergio però comincia a capire qualche cosa di se stesso quanto, dopo aver spinto Nella in camera dell’amico, si accorge di impugnare la rivoltella che aveva in tasca, proprio come Michele negli “Indifferenti”, pronto a scontrarsi con Leo per vendicare l’onore di sua sorella, quando si accorge di non avere abbastanza “fede” per ucciderlo e, ancora una volta, deve cedere ed essere beffato dalla sfrontata arroganza di Leo. Così Sergio “si smonta” di fronte alla calma di Maurizio, quando scopre che è proprio l’amico a vincere, respingendo il “dono” di Nella e a rovesciare il gioco da lui ideato, non accettando un’idea politica che non condivide.
    Ne: “I due amici”, Sergio scopre da questa esperienza, che il suo essere intellettuale non ha soffocato i suoi normali sentimenti ed ora, di fronte a Maurizio che, secondo il patto, doveva avere Nella, si trova in preda ad una banale gelosia, come qualunque altro uomo.
    La presa di coscienza da parte della donna, consapevole di essere diventata ormai solo un oggetto di scambio, si determina alla fine, con la sua volontà di ritorno ad una vita normale, al di là delle astrazioni intellettuali dei “due amici”, ritrovando se stessa, attraverso il matrimonio con un vedovo, Moroni, che vuole risposarsi, consapevole del proprio bisogno di una vita affettiva, dopo la morte della moglie.
    Sia Nella che il vedovo vogliono ritrovare un po’ di pace nella quotidianità di una normale vita coniugale, con le sue basi di sicurezza, anche se un po’ ripetitiva: questa forse poteva essere la conclusione del romanzo.
    I ritrovamenti di opere anche embrionali e frammentarie o non finite, sono emozionanti e preziosi per chiarire momenti sconosciuti del percorso di maturazione di un autore e comprenderlo meglio sia da parte degli “addetti ai lavori“ che dal pubblico e Moravia ha ancora oggi una grande popolarità.
    Perché Moravia si era fermato ogni volta con questa narrazione?
    Qualcosa lo attirava in questo racconto e i protagonisti erano ben delineati, ma, come trovare uno svolgimento e dare un epilogo realistico ad una storia “concettuale” come questa?
    Anche in questi incompiuti ma importanti “frammenti” lo stile di Moravia è inconfondibile: a volte lucido e distaccato, a volte partecipe e profondamente introspettivo; il suo lessico è caratteristico e personale, ricco di arcaismi molto particolari, forse anche in riferimento al linguaggio dell’epoca della composizione del romanzo (1952); il dialogo serrato, preciso, minuzioso, ricorda a volte le cadenze dei drammi di Pirandello.
    Ecco l’insoddisfazione di Sergio nella sua conflittualità (amore/disprezzo): “Qualche volta, pur abbracciandola, lagrimavo, per qualche momento, contento dell’oscurità che nascondeva ai suoi occhi la mia debolezza, esprimendo in quel pianto tutta l’amarezza accumulata durante la giornata”.
    Altrettanto interessanti le analogie di questi personaggi ( molto definiti, anche se in un progetto non finito) con altri del mondo letterario dell’autore: Nella ha, in certi momenti la sensualità naturale di Adriana (“La Romana”), mentre Sergio, nel suo voluto distacco dal sentimento, può ricordare Dino della “Noia”, con la problematica dell’incapacità di rapporto con le cose: allo stesso modo entrambi capiscono il valore e l’esistenza di un oggetto o di una persona solo nel momento in cui stanno per perderlo.
    Anche i personaggi delle tre redazioni non finite, consapevoli del loro fallimento nella vita lavorativa e sociale, coltivano la grande speranze degli anni ’50: il cinema, attraverso la proposta delle sceneggiature di un film per Sergio e le offerte di provini per Nella.
    Lo stesso Moravia ha lavorato a lungo per il cinema e molte sue opere sono state portate sullo schermo, con grande successo, come “La Ciociara”, “La noia”, “Agostino”, “Il conformista” etc.
    Oltre a questo ha svolto molteplici attività: scrittore, giornalista, sceneggiatore, etnologo, saggista, parlamentare europeo…
    E’ stata forse la mancanza di tempo il problema per cui non ha dato una fine a queste tre elaborazioni di una storia così particolare?
    Se avesse potuto riprendere il suo lavoro interrotto, quali sarebbero state le sue convinzioni e che epilogo avrebbe dato alla storia de “I due amici”?
    (Il libro è pubblicato da Bompiani)
    * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *

    GESUALDO BUFALINO E LA NOSTAGIA PER UNA TERRA
    A VENTI ANNI DALLA MORTE
    (di Pierfranco Bruni)

    Nella voce di Gesualdo Bufalino, (Comiso, 15 novembre 1920 - Comiso, 14 giugno1996), quando parlava della sua Sicilia si poteva scorgere la nostalgia per una terra che aveva perduto la sua innocenza. La malinconia era tanta ma anche il velo dell’ironia occupava gli spazi, i silenzi, le parole non dette. Quell’amaro miele invadeva tutto il Sud ma c’era la civiltà dei popoli, l’appartenenza, il forte odore delle radici, la mediterraneità intrecciata con il sentire della storia, che bisognava recuperare.
    Una delle ultime metafore è stata consegnata al suo romanzo dal titolo Tommaso e il fotografo cieco (1996). Il protagonista di questo romanzo è un personaggio di nome Patatrac , il quale abbandona la professione di giornalista e va a vivere nei sotterranei di un condominio. Farà il portiere del condominio. Quindi osserva le gente che va e che viene , che parte e che arriva. Questo condominio nasconde la metafora del “porto sicuro” ma forse è la metafora che Bufalino ha intrecciato in quel legame tra la solitudine, l’esilio e la fuga.
    Sono temi molto cari a Bufalino. La stessa Sicilia nasconde non solo quel sentiero della nostalgia e quindi dell’appartenenza ma recupera la problematicità di una cultura che è fatta sì di tragedie e di lutto ma anche di sogno e di ricordi. D’altronde in un libro del 1986 dal titolo L’uomo invaso e altre invenzioni emerge il bisogno di raccontare le avventure perdute perché è in queste avventure che si ritrovano i segreti mai velati. Segreti che accompagnano il viaggio o il labirinto. Ma occorre viaggiare nel labirinto perché l’uscita fuori da esso ci dà l’innocenza. Quell’innocenza perduta che è memoria, che è infanzia, che è armonia.
    Amava la Sicilia, la solitudine, la nostalgia, la memoria come recupero di un tempo immenso e lontano. E amava il sonno e il sogno dei paesi. I paesi attraversati lungo i ricordi, lungo l’infanzia, lungo quella giovinezza, che è diventata racconto. E ha raccontato, appunto, la malinconia dei giorni perduti e ritrovati.
    Gesualdo Bufalino traccia un viaggio alla ricerca del simbolo e degli archetipi che soltanto la parola può restituire. Ed è la parola che si fa letteratura ma che resta vita.
    Almeno tre sono i percorsi che Bufalino ha sottolineato nel suo raccontare la vita nella letteratura. Il paese e l’infanzia. La solitudine e il tempo. La morte e il lutto. Non sono tre linee ma sono invece da considerarsi tre precisi riferimenti che i suoi libri pongono con forza in evidenza già a cominciare da Diceria dell’untore che risale al 1981. Qui la solitudine non è un esilio ma non è neppure un’isola. È il sentirsi soli nell’attraversamento della storia, che occupa tutto lo scenario. La storia non tanto come principio fondante ma, soprattutto, come quotidiana trasferta dalla cronaca ai fatti. La solitudine, comunque, in questo libro può leggersi sì come malattia ma, anche, come il superamento stesso di questa malattia che trova nella nostalgia un elemento vivificante.
    Il paese e l’infanzia restano l’asse intorno al quale si forma anche la “resistenza” di un linguaggio la cui espressività ha forti richiami barocchi. Sia in termini letterari – espressivi sia in termini di contenuti letterari. E’ qui che si gioca la diversità tra Gesualdo Bufalino e Leonardo Sciascia. In Bufalino c’è la mediterraneità della memoria e della nostalgia. In Sciascia invece prevale la ragione come identità illuministica. Nella memoria non c’è la ragione perché ciò che avanza sul piano letterario è la favola e il mistero. Ebbene in Bufalino c’è sia la favola che il mistero. Basterebbe accostarsi alla pagine di Argo il cieco ovvero i sogni della memoria del 1984 o a La luce e il lutto del 1988.
    In questi due testi citati i riferimenti evidenziati ci sono tutti. E sono riferimenti che condizionano il rapporto tra vita e letteratura in Bufalino. Un rapporto sempre costante e sempre profondamente sentito.
    In una quasi polemica con un romanzo di Paul Nizan, Bufalino sembrava rispondere : “…non permetterò a nessun sapientone di Francia di venirmi a dire che non si è felici a vent’anni, per tardivi e posticci che siano…No, non si è infelici, sebbene si proclami gran vice di esserlo, e si pianga volentieri un sabato sì e un sabato sì…”.
    È una sottolineatura che non collima, certamente, con il romanzo di Nizan ma che sposa integralmente la visione che ne ha fatto Robert Brasillach nel suo Commè le temps passe (1937, La Ruota del Tempo, Edizioni Sette Colori 1985).
    Il tema della morte è stato sempre affrontato con ironia ma che si frammenta proprio in una dimensione che è sostanzialmente letteraria. Così in La luce e il lutto (1988): “Non ho più amici, né favole, solo compongo cabale e cabalette di parole, beffe e baruffe di parole per ingannare la morte”. E l’ironia aumenta e diventa più marcata. C’è una visione malinconica che completa il quadro proprio in un altro romanzo del 1988 dal titolo Le menzogne della notte. Così: “Noi, gli uomini, chi siamo? Siamo veri, siamo dipinti? Topi di carta, simulacri increati, inesistenze pervenute sul palcoscenico di una pantomima di cenere, bolle soffiate dalla cannuccia d’un prestigiatore nemico?”.
    L’ironia di Bufalino è, appunto, nella malinconia. Come la sua sicilianità. Una sicilianità che è senso di appartenenza e che si porta dentro il lutto e la memoria, la nostalgia e la morte. Una terra, la sua Sicilia, che è tutta nella metafora del suo raccontare. Ma se la Sicilia è cronaca resta, soprattutto, memoria con i suoi segni antichi e con i suoi solchi. Così annoterà Bufalino nei giorni di tragedia che videro la sua Sicilia ad essere protagonista di fatti di morte e di lutto: “La Sicilia, insomma, invade ma è anche invasa”.
    Approfondirà questo concetto con una simile meditazione: “La ribellione del popolo che ci fa ora sperare in un futuro di pace, che, senza sacrificare le conquiste del progresso, possa restaurare la perduta innocenza della Sicilia”.
    Nei suoi libri si parla di questa “innocenza della Sicilia”. Si parla di una innocenza come se fosse un “amaro miele”. L’amaro miele è un suo libro di versi che risale al 1982, nel quale la poesia si lega alla parola come origine, come ritrovato luogo di un mito. Perché è nella parola che si scoprono i frammenti del tempo perduto e il rapporto tra la letteratura e la vita è tutto giocato nel girotondo della memoria e del sogno.
    In Calende greche del 1992 il girotondo della memoria è una incisione ancestrale e non ci sono finzioni o maschere. Possono esserci invece turbamenti e malizie (come ha raccontato in un altro suo libro del 1984 dal titolo Il fiore breve ovvero le malizie della memoria) che danno voce al destino il quale ci riconduce alla malinconica consapevolezza di Tommaso e il fotografo cieco. Uno strano presagio che ci conduce in un metaforico labirinto in cui non si sa se è il sogno o lo specchio a farci uscir fuori dal labirinto. E poi alla fine giunge la morte. La morte come consolazione o come consapevolezza o come definitiva integrazione tra la letteratura e la vita, ovvero tra la letteratura o il tempo della vita. Un tempo che si ricongiunge ad una altro tempo che è quello, sempre, della morte.
    Si potrebbe definire Gesulado Bufalino come lo scrittore che raccontò la nostalgia. E la raccontò raccontando la ricchezza della solitudine. Una solitudine non solo fatta di parole ma di segni e di simboli. Quando parla della sua Sicilia ne parla non solo in termini di consapevolezza storica ma la ridisegna nel quadrante del sogno e, appunto, dei simboli.
    Era triste per quello che accadeva in Sicilia. Aveva scritto : “La mafia è una sorta di rivolta contro lo Stato. Il senso di estraneità allo Stato è qualcosa di atavico nel siciliano, ma la maggioranza dei siciliani non ha mai i connotati mafiosi”.
    Era triste ma conservava una venatura ironica. Il barocchismo di Bufalino non era solo nelle espressioni o nelle parole che ricordano i popoli e le malinconie era anche nei contenuti. Era nei paesi che conservano o nascondono misteri, nel passo dei vecchi che ascoltano il lutto e hanno segreti, nel cigolio dei carretti, nelle infanzie abbandonate nelle piazze e nei sogni che sanno di verità o nelle verità che si intrecciano ai sogni.
    In un gioco di immagini ci resta quel Tempo in posa (del 19992) che è fatto di un Museo d’ombre (del 1982), di Saldi d’autunno (del 1990) e di Bluff di parole (del 1994).
    * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *

    PINOCCHIO: I GRANDI CONTRASTI DI UNA FIABA AFFASCINANTE
    135 anni fa nasce il burattino famoso in tutto il mondo
    (di Pierpaolo Serarcangeli)

    "Fanne quello che ti pare, ma se la stampi, pagamela bene, per farmi venir voglia di seguitarla". Così scrisse Carlo Lorenzini (poi Carlo Collodi) al direttore della rivista fiorentina "Il Giornale per i bambini" quando gli inviò una sua opera per l'infanzia: "La storia di un burattino". La vicenda uscì a puntate; la prima apparve il 7 luglio del 1881: ben 135 anni fa. Probabilmente Collodi non era consapevole di aver creato una storia che poi ebbe uno straordinario successo e fama internazionale. Alla fine di ottobre dello stesso anno apparve l'ultimo capitolo, il quindicesimo. Ad avvalorare l'ipotesi che l'autore ignorasse le potenzialità della sua creazione, contribuisce il fatto che la parola "fine" posta in coda appunto all'ultimo capitolo, corrisponde all'episodio nel quale Pinocchio viene impiccato dal Gatto e la Volpe.
    Qualche mese dopo, però, nel febbraio del 1882, gli episodi ripresero, sia pur con una cadenza meno regolare e vennero aggiunti tutti i nuovi capitoli, fino al ventiseiesimo, il conclusivo: 25 gennaio del 1883. Sempre nello stesso anno, finalmente, l'opera completa: "Pinocchio. Storia di un burattino" viene pubblicata in volume dall'editrice Paggi di Firenze, corredata di un apporto prezioso: le magnifiche illustrazioni di Enrico Mazzanti.
    Superfluo e inutile, perché assai noto, sottolineare l'immensa fortuna di "Pinocchio"; favola adatta ai bambini, ma anche e soprattutto apprezzata dai lettori "maturi", che nella storia hanno colto punti e spunti di riflessione, oppure - più semplicemente - sono rimasti incantati dalle avventure e disavventure che affiorano capitolo dopo capitolo.
    "Pinocchio", tra i libri pubblicati in ogni tempo e in ogni paese, è forse quello più ricco di contrasti, di invenzioni e di dicotomie. pinocchiolibro
    Per prima cosa, infatti, il lettore deve continuamente "partecipare" alla storia dando a Pinocchio, di volta in volta, a seconda dei casi, una veste umana o quella di burattino; le due "sembianze" si mescolano talmente bene che il ruolo burattino-bambino o bambino-burattino spesso è come se venisse a mancare: in altre parole, Collodi ha creato un "pupazzo" umanizzato in pieno, sicché intenti, sentimenti e azioni riflettono benissimo gli aspetti dell'animo umano. Questa è la prima, geniale ed enigmatica dicotomia. Ma ve ne sono altre.
    Come in quasi tutte le favole, ci si trova di fronte a un mondo fantastico che però è inserito in un contesto di mondo reale (la Fatina, il Paese dei balocchi, il Grillo parlante, il Campo dei miracoli, il Teatro dei burattini si misurano e si relazionano con la figura di Geppetto, la scuola, i Gendarmi, ecc...). Ma andiamo avanti. Come non cogliere le differenze che connotano il mondo dell'infanzia con quello degli adulti? A questo elemento se ne aggiunge subito un altro: il divario - presente in tutto il libro - tra lecito e illecito, fra onestà e disonestà ai limiti della truffa ( e di nuovo dovremmo citare il Grillo parlante, la Fatina, ai quali si contrappongono il Gatto e la Volpe, le fantastiche e illusorie aspettative di Lucignolo, i buoni propositi di Pinocchio, che prima vengono annunciati, intuiti, quasi "carezzati" e poi sfrontatamente ignorati).
    C'è almeno un altro elemento che contribuisce a tener unita la tela di questa perenne dicotomia: l'alternanza di luce e di buio. Circa la metà delle disavventure del burattino sono infatti avvolte dal velo delle tenebre. "Questo contesto notturno è in genere tempestoso e invernale, dove spesso al freddo si accompagna la fame" cita Asor Rosa. Probabilmente le tenebre sono anche metafora di paura, di castigo, viste le malefatte di Pinocchio. E sul burattino, Collodi si guarda bene di far calare sia pur l'ombra di un aiuto divino (gli unici alleati di pinocchio sono il Grillo e la Fatina, mentre il povero Geppetto non può fare più di tanto e finisce pure per cacciarsi in guai seri per ritrovare il suo "bambino"); nella storia "non c'è ombra di trascendenza o di spirito religioso (e quest'opera di Collodi) è la più disincantata e laica dell'Ottocento italiano" (sempre Asor Rosa).
    Sono probabilmente anche questi profondi contrasti, che hanno favorito la fortuna del libro; fortuna che poi dalla carta stampata ha creato pupazzi, giocattoli, storie illustrate, cartoon, il celebre film d'animazione della Disney e film veri e propri: ricordiamo Manfredi nei panni di Geppetto e benigni in quelli del burattino.
    Il capolavoro di Collodi coinvolge anche perché è uno spietato specchio della nostra anima: delle nostre grandi debolezze e delle poche virtù. In un mondo di inchiostro, di carta e di cartone, si ritrovano le umani debolezze, le nefandezze più truci, nobili propositi e fantastiche trasformazioni. Il sogno si tinge di realtà e viceversa.
    Chi di noi non vorrebbe diventare burattino, talvolta, per fuggire dalle proprie responsabilità? Chi non ha mai sognato di "staccare la spina" e di partire per posti inaccessibili e lontani? Chi non è stato tentato, almeno una volta, dalla possibilità di ottenere un facile guadagno? Chi di noi non è stato abilmente truffato?
    Nel ritrovarci con Collodi e il suo burattino di legno ci sentiamo tutti un po' più vulnerabili, forse anche meno responsabili e più disposti a infrangere le regole della convivenza sociale: ma avvertiamo anche tutta la fragilità e la precarietà della nostra indole umana.
    * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *

    MARIO SOLDATI
    Lo scrittore tra letteratura e cinema
    (di Pierfranco Bruni)

    Era la fine degli anni Ottanta quando conobbi Mario Soldati. Parlammo di letteratura e di città. Di storie e di presente. La città e i luoghi. Il senso dell'appartenenza e il viaggiare nella memoria. Uno scrittore tra le pieghe dei ricordi. Una Torino "odiosamata" c'è in alcuni romanzi di Mario Soldati. Quella Torino che si presenta con "grandi portici aerati e soleggiati: i negozi ricchi, le insegne dorate, i cristalli scintillanti di cielo: i bei vialoni larghi, lunghi, diritti, all'infinito, con le quattro file parallele dei loro alti alberi, vere colonne vive, cupole fiorite e profumate, che il vento del solstizio, scendendo dalle vicine vette e dai ghiacciai, attraversava vivificante e impetuoso".
    E' la Torino dei ricordi, degli immensi scenari, degli ambienti che si confrontano e si contrastano. Mario Soldati nei suoi libri ha tracciato confronti e contrasti. Le due città. Roma e appunto la sua Torino. E Torino è sempre lì. Nella partita a bocce. Nella stazione. Il mondo politico e culturale. La vitalità. I ritratti del paesaggio. Insomma Torino è storia e formazione in Soldati.
    Non c'è comunque un altro Soldati o un Soldati diverso. E' lo stesso scrittore, che si serve ora e della parola ora delle immagini, nella proiezione del raccontare. E raccontando si racconta come in un viaggio o una scrittura diaristica. E così di seguito nel suo armonizzare i luoghi e le città con le avventure e i personaggi.
    In America, primo amore Mario Soldati scrive: "il primo amore e il primo viaggio son malattie che si somigliano". E', certamente, il messaggio più lapidario che si può cogliere ripercorrendo ora l'itinerario letterario di questo scrittore.
    Tra fantasia e misticismo. Tra il rincorrere la fede come atto di fede e la bellezza nel raccontare, appunto, l'amore, il viaggio, le città, le donne, la vita. Non un mistificatore ma neanche un fantasista. Un creatore di storie e di emozioni nel tempo che dilaga nell'incantesimo di avventure che si fanno sogno.
    Mario Soldati è morto a 93 anni (nato nel 1906). Lo scrittore che ha attraversato la letteratura, il cinema, il viaggio, i luoghi in una rappresentazione non solo metaforica e iconica, come nel racconto delle città, ma soprattutto meta – realista.
    Il moralismo sembra un passaggio obbligato in una condizione esistenziale in cui le contraddizioni non sono soltanto nello svolgersi letterario o cinematografico ma vivono nella quotidianità.
    Nella quotidianità c'era l'ironia. Quell'ironia impastata nel moralismo e nel misticismo. Nel racconto "Il fioretto" del volume L'amico gesuita del 1943 si legge: "Il misticismo ha talmente dominato la sua educazione, che è diventato necessario anche alle funzioni che gli sono opposte". Avanzano quelle genuine e straordinarie e necessarie contraddizioni che sono vitalità in Mario Soldati. Ma il misticismo c'è. E vi resta sino alla fine.
    Era nato a Torino nel 1906. Laureatosi in Lettere va ad insegnare tra gli anni 1929 1931 alla Colombia University di New York. Ritorna in Italia e si dedica al cinema come regista, oltre che soggettista e sceneggiatore, e produce film come: Piccolo mondo antico, Malombra, La provinciale, Fuga in Francia, La mano dello straniero, La donna del fiume e molti altri. Lavora per la televisione e scrive per alcuni giornali. (Piccolo mondo antico, 1941, film con Alida Valli e Massimo Serato)
    Nel 1929 pubblica Salmace e nel 1935, con lo pseudonomo di Franco Pallavera, Ventiquattro ore in uno studio cinematografico. America, primo amore è del 1935, La verità sul caso Motta è del 1941, A cena col Commendatore è del 1950. Nel decennio degli anni Cinquanta vedono la luce Le lettere da Capri del 1954, Il vero Silvestri tre anni dopo e La messa dei villeggianti nel 1959.
    Tre libri importanti che segnano certamente un traguardo ma ci sono libri simbolo che danno il senso della creatività di Mario Soldati. Mi riferisco, in questi già citati, a quello del 1935 e a quello del 1954. Poi sarà la volta de Le due città nel 1964, I racconti del maresciallo del 1967 , La sposa americana del 1977, L'incendio, del 1981, El paseo de Gracia nel 1987.
    Una ricca produzione che dà la misura dell'intenso ed eclettico lavoro di Soldati. Uno scrittore che riusciva ad essere personaggio tra i personaggi. Sia nel cinema che nella letteratura. E questo intreccio si è consolidato in amore – passione. Un amore – passione fatto di intrighi, di ricercatezza, di sogno, di linguaggio e di gesti.
    Con Soldati, infatti, la parola e l'immagine si ritrovano in una simbiosi straordinaria in cui l'espressione è già nella metafora della parola e la simbologia di un segno è nello sguardo che si fa vita. Si crea così un percorso che è puramente letterario ma che fa evincere quel tratto contradditorio che diventa una vera e propria specificazione nel circuito culturale dello scrittore del regista.
    Scrive Piero Cudini, in un testo di storia della letteratura, che "Soldati ha uno stile scarno, scattante, che rende assai bene il senso, anche, dei nuovi linguaggi novecenteschi: di quello cinematografico innanzitutto".
    In Soldati le contraddizioni non sono assolutamente elementi negativi. Sono quella caratteristica che contraddistingue la fantasia e l'onirismo dello scrittore. I suoi romanzi sono impregnati di ambiguità calata nei personaggi.
    I personaggi sono il tempo dell'esistere e partono quasi tutti da un impulso che porta al moralismo. Il suo confrontarsi costante con il mondo cattolico avvia un processo di chiarificazione tra destino e avventura stessa dei personaggi. Ovvero del
    personaggio. Il quale non riesco a vivere o meglio ad esistere senza la sua "dimensionalità contradditoria".
    I riferimenti che si ascoltano in Soldati si possono leggere attraverso questi punti.
    A. La letteratura che diventa recupero della centralità del personaggio.
    B. Il personaggio che si fa avventura e che trova in Soldati una duplice chiave di interpretazione: nella forma narrativa e nella esplicazione dell'immagine grazie al cinema. Ma già in letteratura il personaggio assumeva la sua
    centralità nella visione di una proiezione prospettica nell'immagine.
    C. Lo spazio del raccontare crea, nella proiezione delle immagini, un raccordare
    nel tempo di due elementi: il ricordo e la memoria. Soldati racconta come se
    vivesse in presa diretta i fatti e in molte occasioni è come se li rivivesse ma
    alla base c'è sempre il filtro del tempo.
    D. La specificazione dello spazio, anche in una realtà metafisica e metaforica, si
    concorda con i luoghi. E ci sono i luoghi che restano nella fissazione dei
    paesaggi e nella descrizione delle città che diventano, paesaggi e città, anche
    modelli poetici.
    Ma qual è la sintesi fondamentale di queste coordinate? Ci sono due lucide osservazioni critiche che ci danno il metro letterario della posizione di Soldati nel quadro del Novecento.
    La prima è di Giorgio Bassani il quale nel 1966 scriveva: "… anche Soldati ricanta, a suo modo, l'aridità e l'impotenza di una civiltà che è tutta in crisi".
    La seconda è di Giuliano Manacorda del 1972: "Soldati è uno dei pochi in Italia per cui raccontare non significa solo pennellare lente situazioni interiori e per cui romanzo vuol dire svolgimento di una trama, senza per questo rinunciare a una perfetta caratterizzazione psicologica, ma, al contrario di questa facendo la ragione stessa dello sviluppo dell'intreccio".
    Le due città è un libro dalle luci che offrono controluci. Cioè è un libro dell'intesa e delle contrapposizioni. Si veda il contrasto amorevole tra Roma e Torino. Un contrasto che si raccoglie nel narrare e saper narrare, nel raffigurare e saper mostrare gli spazi interni ed esterni, quelli interiori dell'animo e quelli esterni delle città, dei paesaggi, dei luoghi.
    I suoi romanzi si incastonano in questo processo che, come si diceva, trova un suo svolgimento proprio nel rapporto tra vita e letteratura. Soldati ha raccontato la vita e raccontandola ha sottolineato la sua vita, il suo pensiero, il suo squisito romanticismo misto a un decadente realismo.
    In questo raccontarsi i luoghi e i paesaggi sono diventati delle voci fondamentali per una decodificazione dell'atto creativo stesso. Roma e Torino, per esempio, sono una pietra miliare nel vagabondare di una fantasia che si fa tensione lirica, riappropriazione di sentimenti, recupero di codici linguistici e stilistici proprio attraverso quel dialogo tra la parola e l'immagine.
    Proprio per questo resta uno scrittore complesso la cui opera va inquadrata non solo storicamente e criticamente ma va riconsiderata come modello di discussione e di analisi in una letteratura in cui il destino del personaggio ridisegna l'avventura del narrare.
    Ebbene, Soldati ha sempre narrato e lo scrittore non si è mai assentato e non si è mai concesso alcuna licenza sia quando ha fatto il regista sia quando ha raccontato le sue storie.
    Come quel diario dei giorni di guerra pubblicato nel 1947 dal titolo Fuga in Italia dove il racconto diaristico sembra dettato sull'onda di una confessione che riprende l'incantesimo dei ricordi. E' un libro di ricordi ma è anche un libro di forti immagini. E' anche un libro di passioni ideali. In queste passioni ci sono quei sentimenti che lo stesso Soldati definisce: "la dolcezza, la pietà, la malinconia del passato".
    "E' lo scrittore più autobiografico che esista". Ha scritto P. Monelli nel 1965. E poi: "Dicendo di uno scrittore che è tutto autobiografico, non s'intende che si debba prendere i fatti che racconta come oro colato. Ma i ragionamenti, le notazioni psicologiche, le introspezioni quelle sono vere, e genuine".
    Lo scrivere è religiosità. E Soldati questo lo aveva capito benissimo. Anzi ne aveva fatto un monito che usava nelle sue riflessioni e lo usava come testamento. "Uno scrittore, un'artista, non deve forse per la conquista dei propri fantasmi, sacrificare la vita tal e quale il sacerdote e rassegnarsi ad avere mani aride come le sue?".
    In Soldati c'è un costante rincorrere l'armonia del dubbio. Ma questo dubbio diventa inquietudine che serpeggia sotto forma di visione onirica, sotto le vesti dell'ambiguità dei personaggi, sotto le vesti di una educazione cattolica, sotto il segno di una impossibilità del conoscere.
    Lo scrittore resta sempre lì che aspetta. Aspetta le fantasie che si fanno vento. Aspetta i fantasmi che aleggiano, aspetta le visioni che penetrano i sentieri del tempo, dello spazio, dell'essere. Lo scrittore è il navigatore delle lontananze nel presente che è un gioco infinito tra la vita e i ricordi.
    Tra la vita e i ricordi c'è appunto la sua città. O le sue città? Ma direi la sua Torino. Quella Torino che aveva un misto, nel suo sangue, di Toscano. Lui di famiglia piemontese ma di nonno materno Toscano.
    Ha voluto sempre ricordare una Torino "con le sue virtù semplici e quasi risorgimentali, la sua cordialità schietta e immediata, l'attivismo talora un po' strabocchevole, la facilità dei contatti col popolo, in una parola con le sue virtù moderate" così ci dice Ugo Fragapane in un suo saggio. E questa città si intreccia in un modo di vivere che ha sempre contraddistinto uno scrittore dai toni armonici, dai segni precisi, dalla memoria lunga. Una memoria che è appartenenza. Era la fine degli anni Ottanta quando conobbi Mario Soldati.
    * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *

    MIA MARTINI
    la voce femminile più mediterranea della musica italiana
    (di Pierfranco Bruni)

    Ho conosciuto Mia Martini al tempo di Nella Nevicata del '56. Una voce un canto, un Minuetto. L'arte e la poesia nell'universo. Non ho mai smesso di ascoltare Mia Martini. Anni lunghi sono passati. Era al tempo del liceo. I suoi Orienti, le donne, la donna, il suo minuetto, i cieli. Una cantante? Una interprete? I suoi testi…
    Ma tutto questo ha senso?
    Quella voce che ha la vibrazione della potenza della sensualità ed ogni parola scandita ha il segno tangibile di una gioia e di una ferita. Piccolo uomo per un amore grande. Immenso.
    La sua voce, le sue mani, i suoi gesti, la sua bocca e il suo vocalizio che ha i singulti delle donne di una Calabria profondamente strascinata tra le onde e il mare.
    L'ho conosciuta tardi. Al tempo della Nevicata del '56. Ma la sua malinconia era sorriso di donna. Complice il mio amico Franco Califano.
    Ora scavo nelle parole...
    Si recitano versi anche quando alla parola si aggiunge un accento o la voce ha un ricamo di malinconie. La nevicata del 56 e la giostra che girava nel ricordare il viso del padre. Già, Califano. Ma nella interpretazione e nelle varianti di Mia Martini cosa muta? La poesia dello sguardo di Mia o di chiamatemi Mimì.
    Sì, una interprete. Ma no. L’arte ha i suoi viaggi e in Mia, che ebbi la fortuna di conoscere tanti lustri fa in quella Roma che era anche Calabria.
    C’è l’artista. Quella che ha recitato con Roberto Murolo un duettare tra gli echi di una lingua che è dialetto, ma anche spazio di un pavesiano cogliere il breve di un verso o il tono di una sillaba di Boris Vian o un accorgimento di Eluard nel viaggio infinito che Mia si portava dentro.
    È stata la voce femminile più Mediterranea che la musica italiana ha avuto insieme a Giuni Russo. L’arte di un Oriente di quando cantava (e canta) il mio Oriente tra il battere di un De André raccoglitore di strade di mare e di un Battiato che fa danzare i dervisci e le zingare. Ma Mia aveva un nomadismo che sulla scena diventava protagonista.
    Quella sua malinconia che ha racchiuso il meraviglioso e il mistero. Forse è così.
    C’è sempre un destino grande nella grandezza degli artisti. Soprattutto in quelli che vanno via in silenzio e fanno del silenzio un lontano lontano o un giorno dopo l’altro la vita se ne va. Già, Tenco. Ma quante vicinanze e distacchi con Luigi Tenco.
    Mia ha vissuto l’arte come il sorriso di una nuvola ed ha affrontato la parola non dimenticando mai che c’è comunque un universo. Almeno tu nell’universo. Ma il silenzio non è solitudine e la solitudine non è dimenticanza. Anche se ogni sera è un’incognita un’agonia…
    Comunque da qui comincia il mio nuovo libro, dopo De André Califano Tenco, che sarà dedicato a Mia Martini, al mio amore per lei, per quella voce, per quegli occhi e per tutto lo spazio che lascia nel mio tempo. Quella sua voce e quel suo andarsene dormendo perché non finisce mica il cielo…
    Mia Martini Almeno tu nell’universo.
    Non starò a chiedere cosa è che accomuna te e me. La sua la mia la nostra Calabria... bisogna sempre spezzare il cerchio alla abitudine per capire domani...
    * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *

    “CIME TEMPESTOSE"
    Emily Brontë e la casa che diventa nido di intrighi e cocenti dolori
    (di Pierfranco Bruni)

    Emily Brontë e le brughiere selvagge di “Cime tempestose”. Una scrittrice nella nostalgia. Emily Brontë pubblica Cime tempestose (ovvero Wuthering Heights) nel 1847. L’anno prima aveva pubblicato, insieme alle sorelle Anne e Charlotte, un libro di poesie usando pseudonimi maschili. Era nata a Thornton nel 1818. La morte, avvenuta per tisi, la colse, all’età di trent’anni, nel 1848. Lo stesso anno, tre mesi prima, muore il fratello, l’amato fratello di nome Branwell, mentre l’anno successivo muore la sorella Anne e nel 1855 Charlotte.
    (le tre sorelle; da sinistra: Emily, Charlotte, Anne)
    Tutto questo per dire come la vita di Emily Bronte cammina su un filo tragico il quale condizionerà tutta la famiglia.
    E nel suo unico romanzo, appunto Cime tempestose, se pur non rispecchiando, come dato rappresentativo di una realtà, la sua biografia, i simboli della tragedia e del dolore sono dominati e il più delle volte è difficile separare il bisogno di raccontare una storia, con i suoi diversi intrecci, attraversata dalla nostalgia e dalla solitudine. Emily vive un’infanzia attraversata dalla nostalgia e dalla solitudine. L’unico svago è la lettura. In un paesaggio straordinario, quale era quello delle brughiere selvagge (si pensi a i Moors che costituiranno lo scenario fondamentale di Cime tempestose), la solitudine campeggia. Emily come d’altronde le sorelle (Charlotte pubblicherà romanzi che avranno un particolare successo) trova una sua salvezza, o come si suole dire una uscita di sicurezza, nella fantasia. Ma la loro, quella di Emily e delle sorelle, è una fantasia che si impasta sempre (o quasi sempre) con una dimensione reale : due poli importanti che domineranno la struttura narrativa di Cime tempestose.
    Tra la fantasia e la realtà si inserisce, ed è evidente nel romanzo in questione, la nostalgia. Ma la nostalgia è una componente della sua vita privata. Infatti, Emily appena si allontana dalla sua casa, dalle sue brughiere viene colta da una forte nostalgia che la costringe a ritornare immediatamente. La lontananza della casa: come sofferenza, come distacco, come senso di perdita. In Cime tempestose la nostalgia del personaggio centrale si fonde con il sentimento di morte, che attraversa sì tutto il romanzo, ma attraversa la vita stessa della scrittrice.
    I temi della sua ricerca letteraria, e se si vuole del suo impegno nella scrittura, sono i temi cari alla sua quotidianità, sono i temi cari del suo essere nella vita. La solitudine, la fantasia, la nostalgia, la morte sono i poli intorno ai quali si muove lo schema - simbolo del romanzo. Accanto a questi si pone una forte affermazione della componente onirica: ovvero del sogno. Il sogno, allora, come trasposizione di un avvenimento che la scrittrice vive solo per sé, ma qui diventa legame e quindi partecipazione con il corpus del romanzo. La casa per Emily Brontë costituisce l’infanzia, la sua cara infanzia delle brughiere, ma l’infanzia viene ad essere vissuta come sogno e nel romanzo la casa diventa depositaria sì di sogni e di memorie, ma anche un nido di intrighi e di cocenti dolori.
    È, in altri termini, la riconciliazione della famiglia, ma nello stesso tempo è la famiglia che si spacca e crea angosce e terribili rancori. E tutta la storia che si narra in Cime tempestose può essere considerata una chiave di lettura, come già si diceva, del destino di una famiglia: la famiglia Brontë. E non va dimenticata, in questo contesto, la fine di Branwel, il fratello coccolato da tutti, che dopo vari tentativi di raggiungere il successo cade in un delirio, che lo porterà alla morte, causata dai vizi: l’oppio e l’alcol. Tutto ciò ha ragione di esistere, soprattutto, perché Cime tempestose è l’unico romanzo, in un periodo particolare della letteratura inglese, di una scrittrice morta giovanissima, in cui tutto viene dall’interno e viene concepito come se fosse un viaggio rivelatore.
    Cime tempestose. Già il titolo presenta connivenze con il mondo della scrittrice. Si tratta del nome di una casa. Questa casa, come si legge nel romanzo, è situata in alto tra le brughiere (ma questa casa è la trasposizione di quella della scrittrice). Nella narrazione amore e odio vengono portati al limite massimo. Ci sono personaggi protagonisti (meglio centrali) come Heathcliff e Catherine e personaggi che sembrano restare in ombra, ma che alla fine contribuiscono a svelare quei piccoli segreti che ravvivono la narrazione stessa. La narrazione è affidata ad una vecchia domestica, che si intrattiene a sminuzzare la storia. Una storia di personaggi e di ambienti e tra gli ambienti vanno collocate le due case nelle quali si svolge la vicenda: quella di Wuthering Heights e quella di Thrushcross Grange.
    Heathcliff (il personaggio centrale) è figlio di ignoti e viene allevato e portato in famiglia da Earnshaw. Ma alla morte di Earnshaw Hindley (figlio naturale) persegue terribilmente Heatcliff, il quale, di carattere fiero, stringe amicizia con Catherine, sorella di Hindley, tanto da innamorarsene. Catherine invece non corrisponde l’affetto di Heathcliff, il quale, dopo aver ascoltato dalla voce di lei, che mai si sarebbe sposata scendendo così in bassa da vivere con un trovatello, fugge. Qualche anno dopo ritorna, ricco e più esuberante di prima, ma trova Catherine già sposata con Edgar Linton. E qui potrebbe finire la prima parte del romanzo se avesse delle parti, ma la storia si snocciola, attraverso una struttura lineare, grazie ai XXXIV capitoli.
    A questo punto inizia la vendetta di Hearcliff. Sposa Isabella, la sorella di Linton ma circuisce continuamente Catherine. Isabella subisce maltrattamenti e violenze dal marito mentre la passione di Hearcliff per Catherine diventa assillante. Catherine appena data alla luce una bambina muore. Nello stesso tempo Hearcliff minacce con brutture anche il figlio di Hindley di nome Hareton dopo aver soggiogato lo stesso Hindley. Il suo scopo è quello di distruggere le due famiglie: quella Earnshaw e quella Linton, ma non riesce fino in fondo a concretizzare il suo progetto. Un odio terribile si è impossessato di Heatcliff. Un odio che gli rende invivibile la vita tanto da prostrarlo e di condurlo in fin di vita. Così muore, e l’ultimo capitolo racconta la sua fine in una atmosfera pregna di significati e di valori, che si richiamano alla consapevolezza del dolore, e forse anche dal bisogno di riconciliazione. La morte di Heatcliff segna, comunque, una nuova fase in cui ritorna la felicità. Infatti Hareton e Caty, la figlioletta di Catherine, apriranno una nuova stagione fatta di gioia e di felicità.
    Il finale del romanzo ha, certamente, un colpo di scena (come si usa dire) ma una simile conclusione quasi si aspettava dopo un itinerario vissuto con molta fatica e sospeso sulla corda di un angoscia terrificante. Resta un romanzo fondamentale che ha una profonda venatura psicologica. Lo scavo dei personaggi è di più della rappresentazione degli ambienti che si mostrano con la loro chiarezza e con una sicura definizione.
    Il romanzo porta due date. Il 1801 con la quale data si dà inizio alla vicenda e il 1802. Da qui comincia il XXXII capitolo. Cime tempestose ovvero Wuthering Heights è il nome della dimora del signor Heathcliff. Emily Brontë dà dei profili precisi dei personaggi. Si prende come esempio quello di Heatcliff. Così la scrittrice evidenzia: “Nell’aspetto è uno zingaro dalla pelle bruna, nell’abito e nei modi un gentiluomo – cioè gentiluomo quando possono esserlo molti signori di campagna: piuttosto sciatto, forse, e tuttavia non fuori posto nella sua trascuratezza, perché ha bella figura diritta, ed è alquanto sdegnoso”.
    Si parlava anche , precedentemente, dell’ultimo capitolo. Qui emerge la consapevolezza della pietà umana e ad offrirla è Hareton. Una pagina molto bella ed è di grande significato. C’è un passaggio in cui si legge: “Ma il povero Hareton, quello a cui era stato fatto il più gran torto, fu l’unico che davvero sofferse molto. Rimase tutta la notte accanto alla salma, piangendo amaramente.. ne stringeva le mani, ne baciava il feroce volto selvaggio, che tutti gli altri evitavano persino di guardare, e piangeva con quel profondo dolore che scaturisce naturalmente da un cuore generoso, foss’anche forte come acciaio temprato”. Hareton si riferisce, come si capisce, a Heathcliff. Il dato umano che si evidenzia è significativo per una scrittrice, che ha fatto della sua vita un viaggio alla ricerca dell’equilibrio, dell’armonia, pur vivendo tra le pieghe del dolore e della solitudine.
    Hearcliff nasce con una difficile condizione da abbattere. Come abbiamo visto è un trovatello. Viene accolto, ma poi viene bistrattato. Questa è la molla che fa scattare un risentimento ingiustificato e che porterà gravissime conseguenze. Emily Bronte costruisce atmosfere, personaggi, identità e inserisce il tutto in un contesto geografico a lei, come già si è detto, molto caro. Le brughiere, appunto, alla fine restano la realtà e il simbolo. I personaggi sono accompagnati dalla forte emotività, che vive all’interno del romanzo, nel quale la descrizione ( o meglio ancora la ricostruzione) e l’analisi dei personaggi fanno tutt’uno. C’è l’intuizione di fondo di alcuni grandi valori e tra questi la solidarietà e la pietà. Il personaggio di Hareton ha questa chiave interpretativa. È insomma un personaggio positivo che si contrappone, indubbiamente, alla negatività di Haethcliff. E da questo punto di vista il romanzo alla fine fa primeggiare il bisogno di umanità, che si riscontra, appunto, in un personaggio che più degli altri era stato costretto a subire e a vivere le difficoltà di una intera famiglia.
    Hareton e Caty sono i discendenti, se così si può dire, di una nuova stagione che il romanzo propone nella sua chiusura, ma vogliono significare una apertura verso quei valori conquistati o ritrovati.
    Con la morte Heathcliff è sconfitto dal male. Hareton è la risposta al male, ma il bene viene ad essere apprezzato soltanto se si ha una forte consapevolezza del suo opposto. L’inizio amorale del romanzo ha, certamente, una conclusione marcatamente morale. E nel finale c’è tutto il pensiero di Emily Brontë, che abbandona la descrizione, la quale si fa partecipazione simbolica. Certamente se fosse vissuta avrebbe continuato a scrivere la storia di Hareton e Caty, forse una storia diversa al di là delle brughiere, e come scenario una nostalgia indelebile tessuta sul filo dei ricordi, con nuove avventure e nuovi personaggi in un gioco di intrecci tra realtà e fantasia, tra vita vissuta nella quotidianità e vita sognata.
    * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *

    MISTERI E DONNE DI D'ANNUNZIO
    Oscure trame al Vittoriale
    (di Silvana Conti)

    La magnifica dimora di Gabriele D’Annunzio, Principe di Montenevoso, traboccante di oggetti rari e preziosi, ma anche piena di meandri, corridoi misteriosi e stanze segrete, si prestava perfettamente all’attività di spionaggio e complotti che un personaggio di così vasta risonanza culturale e politica poteva attirare, specialmente dopo la sua presa di posizione contro Hitler.
    D’Annunzio si era accorto che la sua corrispondenza era talvolta intercettata, addirittura pubblicata prima che lui potesse leggerla e spesso ne chiedeva notizia a Luisa Baccara , la pianista che per molti anni ha svolto le funzioni di amministratrice della casa, oltre a quelle di confidente e amante del Poeta che ammirava le sue “belle braccia riflesse nel nero specchio dell’ebano sonoro”. C’è un’immagine di lei, coperta da un velo nero e con il capo cinto da una corona di edere che si aggira nei giardini del Vittoriale, raccogliendo i fiori che tanto piacevano al Poeta: rose, gaggie, violette che egli teneva vicino a sé, in sottili ed eleganti vasi di Murano. Spesso cantava, nei corridoi della grande casa e nel giardino e il Poeta l’ascoltava con passione.
    Luisa Baccara, detta Rosafosca o Smicrà, sapeva bene di far parte di un “harem” al servizio della fantasia erotica e delle scelte momentanee del Vate, ma aveva anche una funzione prioritaria di amica e confidente rispetto alle altre frequentatrici del Vittoriale, delle quali spesso doveva occuparsi personalmente, a seconda delle direttive del “Comandante”, che le indicava come vestirle e chiedeva anche di comprare loro la biancheria e i “pigiamini”.
    Molte donne che sono state vicine a D’Annunzio accettavano (spesso a malincuore) che il Poeta traesse sensazioni e nuove ispirazioni attraverso incontri con altre, cosa di cui le metteva al corrente, quasi per renderle partecipi e complici.
    Così era stato anche per Maria Hardouin di Gallese, sua moglie legittima, che spesso andava a trovarlo al Vittoriale e per Eleonora Duse , che aveva per il Vate una dedizione materna e totale e spesso l’aveva aiutato, anche in campo artistico, valorizzando al massimo le sue opere.
    Luisa Baccara, “Luisella”, “Piccola”, Smicrà”, doveva preparare i pagamenti al personale, controllare la posta, scegliere stoffe, profumi, fiori per esaltarne la fantasia del Poeta e realizzare i suoi giochi erotici , comprare oggetti e cibi che accendessero il suo interesse.
    A questo scopo ella poteva attingere, dietro disposizioni del Vate al denaro e agli assegni che lui le affidava; le spese erano ingenti, come sempre nella vita di D’Annunzio, che in qualche momento si accorgeva di aver superato il limite ed era costretto a chiedere prestiti, talvolta anche alla stessa Baccara o ad altri. Dl resto aveva bisogno di oggetti, belli, rari, insoliti,”unici”, dei cavalli purosangue e dei suoi bianchi e numerosi levrieri e di raffinati regali di ogni genere con cui fare omaggio alle donne da cui era attratto.
    Tra le tante presenze femminili, c’era al Vittoriale Emy Heufler, bionda altoatesina dalle molteplici funzioni di infermiera, cameriera e amante, che controllava personalmente tutto quello che accadeva e, in particolare i pasti e le numerose medicine che assumeva il Poeta.
    Qualche volta lo stesso D’Annunzio si accorgeva se qualche farmaco veniva manipolato o se era stata aggiunta l’acqua alle “stille brune” di adalina, un tranquillante senza cui non poteva dormire. Sapeva di essere totalmente nelle mani di altre persone e se ne indignava: “Ho il sospetto d’un nuovo tentativo di adulterazione farmaceutica criminosa. Io non so quale mano domestica ha messo acqua nella soluzione…”(da una lettera a Luisa Baccara).
    Era anche preoccupato per le possibili intercettazioni della sua posta, dopo essersi accorto che alcune sue lettere e telegrammi non arrivavano ai destinatari e anche su questo importante problema aveva sollecitato l’attenzione della Baccara.
    Da qualche tempo aveva anche dei disturbi digestivi prolungati e debilitanti, dopo l’assunzione dei pasti; prendeva farmaci, come il laudano e il tannino per calmare questi sintomi che non riusciva a definire e a guarire, ma che sembravano strettamente legati al cibo che assumeva, da buongustaio, dotato di un’autentica fame da “lupo della Maiella”.
    Questi disturbi così simili e ripetuti nel tempo, hanno fatto pensare a molti che qualcuno, al Vittoriale, era stato incaricato di eliminare lentamente il Poeta, soprattutto dopo i suoi commenti salaci su Hitler, inserendo sostanze tossiche negli alimenti a lui destinati.
    Come “dilettante di sensazioni”, amava anche il piacere dei buoni cibi, oscillando tra i prodotti genuini abruzzesi (formaggio pecorino, salami e prosciutto) e specialità raffinate, come il caviale e il “paté de foie gras”. Amava molto anche la frutta, raccolta direttamente nei giardini del Vittoriale, in particolare l’uva, le pesche e “le cerase”, servite in “scrigni” di cristallo.
    ******************
    (tre immagini del Vittoriale)
    Era molto facile attirarlo con piatti insoliti e particolari, disposti in eleganti vassoi accanto alla sua camera, ma, proprio dopo aver mangiato, ricomparivano i persistenti disturbi digestivi che descriveva con il suo abituale virtuosismo letterario: ” Temo di essere abitato da un ignoto ventriloquo a volta a volta stridulo collerico supplichevole gemebondo flebile tonante ghignante! Sono esausto”.
    I medici prescrivevano laudano, tannino e diete a cui il Poeta aggiungeva la stricnina, come tonico del sistema nervoso (in dosi farmaceutiche), l’adalina per dormire e anche un po’ di “polverina del tirlipinpinripì”, come chiamava la cocaina ritrovata negli armadi della Zambracca, la sua farmacia privata, tra la camera da letto e il bagno; era incuriosito e attirato da ogni nuovo farmaco e anche dai prodotti omeopatici; molti interessanti testi antichi di farmacologia fanno parte della sua fornitissima biblioteca.
    Non sopportava di sentirsi invecchiato e indebolito, per di più estenuato da questo costante malore e desiderava percepire come sempre i piaceri al massimo grado, coprendo però con una lunga tunica l’inevitabile decadenza del corpo.
    Un altro episodio misterioso, accaduto al Vittoriale è stato il famoso “volo dell’Arcangelo”: D’Annunzio cadde dal balcone della “Stanza della Musica” il 13 agosto 1922, alla presenza di numerose persone, tra cui Luisa Baccara e la sorella Jolanda, che suonava il violino. Forse la giovane “Joiò” aveva reagito istintivamente a un’inaspettata “avance” del Vate, o un’altra persona, nascosta tra gli ampi tendaggi della veranda l’aveva spinto, oppure un malore improvviso o un capogiro del Poeta, forse sotto effetto di farmaci in combinazione tra loro Quest’episodio ebbe come conseguenza l’annullamento di un importante incontro politico con Nitti e Mussolini, previsto per il giorno 15 agosto e la documentazione di questo fatto è molto scarsa, come se qualcuno avesse voluto eliminare importanti testimonianze.
    Si è parlato anche di un possibile momento di esaltazione suicida, forse in conseguenza a un litigio, accaduto poco prima, ma ascoltato da alcuni ospiti della “Stanza della Musica”.
    D’Annunzio venne trovato morto, riverso sulla sua scrivania alle 20 del 1° marzo 1938 e il medico stilò subito il referto di “ictus”; erano presenti Luisa Baccara, Emy Heufler, Giuditta Franzoni (la vera infermiera) e il medico curante. I funerali vennero fatti in tutta fretta, anche per evitare l’autopsia e altre congetture e lo stesso Mussolini si presentò la mattina seguente alle 8.00.
    ****** (il funerale e la tomba, al Vittoriano)
    La sua morte, secondo alcuni, potrebbe essere l’epilogo del lento avvelenamento provocatogli dalla continua somministrazione di sostanze tossiche nei cibi.
    Una morte che lascia aperte ipotesi e illazioni; secondo alcuni si sarebbe trattato addirittura di suicidio, con riferimento ad uno zio del Poeta, Demetrio, che si era tolto la vita e che egli spesso nominava e ricordando il tema di alcune sue opere, come “Il libro segreto”, in cui riflette proprio su questo argomento, ma sembra un’ipotesi molto contraria al gusto di vivere “al massimo” che il Vate aveva conservato fino all’ultimo.
    Sospettava di essere controllato ma non sapeva che il Questore Rizzo, sulla base delle informazioni raccolte, inviava spesso delle relazioni a Mussolini sul comportamento di D’Annunzio al Vittoriale. Questi documenti ora conservati all’Archivio di Stato di Roma.
    L’ipotesi che D’Annunzio sia stato vittima di una spia al servizio dei Nazisti, è stata sostenuta anche da Alfredo Todisco in un suo articolo pubblicato sul Corriere della Sera nel 1975.
    Infatti era diventato insostenibile per il Regime il suo atteggiamento di rifiuto verso Hitler, da lui definito “L’Attila imbianchino” e la tesi della spia al Vittoriale potrebbe essere comprovata dal fatto che, alla morte di D’Annunzio, l’infermiera Emy Heufler passò immediatamente al servizio di Ribbentrop, ministro degli Esteri tedesco.
    Nonostante le imprese eroiche, le tante donne, le numerose amicizie, i familiari, i figli, D’Annunzio era in realtà un uomo molto solo, vittima di se stesso e del suo personaggio pubblico, facile preda di complotti da parte delle persone di cui voleva fidarsi.
    * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *

    SIMONE WEIL. IL SENSO DEL DIVINO INCONTRA IL TRAGICO
    (di Pierfranco Bruni)

    Testimonianza spirituale nella voce di Simone Weil. L’esperienza spirituale è un cammino di attraversamento. Il Pensiero è un passaggio tra l’anima e la mente. Penetra il tempo. Il tempo metafora delle vite e delle memorie nelle quali le vite stesse continuano a vivere. I radicamenti sono anche nel vissuto delle nostalgie. Noi siamo nostalgia. Maria Zambrano e Simone Weil. Cristina Campo e Antonia Pozzi.
    Al femminile il tragico è sentiero di ricerca e di viaggio sino a toccare Francisca de La Valle. Blanchot cerca nel tempo lo spazio.
    Nel cerchio di questo viaggiare la nostalgia è empatia. La nostalgia anche come “memoria vissuta”. “Frammenti di un discorso sulla nostalgia” di Eugenio Borgna. Si legge: “In una esperienza emozionale, come quella della nostalgia, il passato (la dimensione del passato) dilaga e sommerge il presente (la dimensione del presente) mentre il futuro (la dimensione del futuro) retrocede: fibrilla e poi si sfalda, si incrina e poi si spezza quando la nostalgia abbia a trasformarsi da semplice stato d’animo in forma clinica: in depressione”.
    La dimensione del futuro è una archeologia dei saperi scavati nell’anima. L’anima e il silenzio sono tasselli del mosaico dell’esistere e del non essere per rappresentarsi nella presenza come volto della conoscenza. La conoscenza guida l’amore. L’amore è sempre (ha) misericordia. “Quando manchiamo di misericordia separiamo violentemente la creatura dal suo Creatore” (Simone Weil). Su Simone Weil Eugenio Borgna dedica un suo camminamento: “L’indicibile tenerezza. In cammino con Simone Weil” (Feltrinelli, 2016).
    Qual è questa indicibile tenerezza? La via verso la Fede. Accanto alla Weil si leggono altri viaggi. Le disperanti parole del dubbio diventano il pensiero pensato di Pascal, la metafisica dello specchio che trovo costantemente nella mia Zambrano, i suicidi da Pavese alla Pozzi.
    Proprio sulla Pozzi sottolinea Eugenio Borgna: “La storia della vita e della morte di Antonia Pozzi è stata segnata da questa precoce aspirazione alla morte e da questa acutissima percezione del trascorrere (del fuggire) del tempo come epifania della inconsistenza e della friabilità della vita. (…)
    La malinconia… non può non essere considerata come la matrice possibile della morte volontaria di Antonia Pozzi: essa scorre come un filo rosso lungo le sue poesie: dalle prime, così immerse in una dolorosa e disfatta climax adolescenziale, alle ultime; e alla malinconia non può non essere legata la loro indicibile fascinazione” (“L’attesa e la speranza”, Feltrinelli 2005).
    Si vive sempre di attesa e di speranza. Perché sia nell’attesa che nella speranza si vive l’immensità dell’amore: “Amare puramente significa amare nell'altro la sua fame. Ma noi amiamo gli altri come nutrimento”. L’amore è nutrimento. Dentro queste dimensioni del pensare convivono gli esercizi di una spiritualità profondamente radicante e radicata nelle visioni divine. Il senso del divino incontra il tragico con Simone Weil. Ma incontra soprattutto il contemplante.
    Soltanto la spiritualità ci permette di entrare nella parola contemplante e nella misericordia del mistero. Ma soltanto il dolore ci permette di conoscere e ci cambia. Ma nel dolore bisogna essere fedeli. Solo in questa fedeltà si resta con se stessi: “La fedeltà è il segno del soprannaturale, perché il soprannaturale è eterno” (Simone Weil). Bisogna credere nel destino?
    Si crede al miracolo. Perché è il miracolo che si lega alla fede. Dunque un viaggiare in una estetica della spiritualità e del sacro che propone una lettura di senso alla vita e al tempo.
    Vita e tempo sono “soggetti” spirituali e proprio in tale orizzonte le nostre vite si incontrano oltre il concetto stesso di destino. Credo che la riflessione porta alla meditazione- Questa ci permette di osservare: “Ci sono individui che cercano di elevare la loro anima come un uomo che salti continuamente a piedi uniti, nella speranza che a forza di saltare sempre più in alto, un giorno, invece di ricadere, riuscirà a salire fino in cielo. Ma mentre è tutto preso da questi tentativi egli non può guardare il cielo. Noi non possiamo fare nemmeno un passo verso il cielo:la direzione verticale ci è preclusa. Ma se guardiamo a lungo il cielo, Dio discende e ci rapisce” (Simone Weil).
    Essere rapiti da Dio è toccare l’armonia che inquieta il cuore e riposa nell’anima.
    * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *

    VINCENZO CARDARELLI. UN POETA DIMENTICATO
    Cento anni fa pubblicava i suoi "Prologhi"
    (di Pierfranco Bruni)

    Nel numero 7 (luglio 1959) della rivista “L’osservatore politico letterario”, dedicato a Vincenzo Cardarelli (Corneto Tarquinia, Viterbo, 1887 – Roma, 1959), G. Titta Rosa sottolinea l’importanza dello “stile popolare” e il “gusto dell’arte” che vibrano nella poesia e nella prosa di Cardarelli. La nostalgia del tempo e la malinconia dei paesaggi (i cui luoghi non sono, in Cardarelli, soltanto luoghi geografici, bensì luoghi dell’infanzia, della metafora di una memoria che riporta immagini e sensazioni e queste si trasformano in leggeri ricordi portati a spasso dal vento, da quel vento che ha tocchi di antiche civiltà) sono un viaggio che la poesia compie tra i sentieri incantati dei miti.
    Gli Etruschi (i veri antenati di Cardarelli e della sua terra: Tarquinia), l’Etruria, la civiltà del pae-se, il ritornare al paese e il simbolizzare il paese come una eredità, sono elementi di una poetica i cui temi fondamentali sono tutti giocati sul sentimento del ritorno e sulla allegoria del viaggio. Ma è la nostalgia la componente fondamentale non della sua ricerca (in Cardarelli non si parla di ricerca poetica ma di orizzonte poetico e di tensione lirico-sentimentale-onirico) ma dei suoi segni archetipici.
    L’amore e il tempo, la partenza e l’attesa, il sogno (che non è il sognare soltanto ma è la “frase” della fantasia e del fantasticare nell’isola della crea-tività che assorbe il vissuto) e il ricordare sono percorsi di un labirinto dentro il quale la poesia si fa dolore – vita – grazia – magia. I suoi Prologhi (1916), celebrano appunto il centeranio della prima edizione, i suoi Viaggi nel tempo (1920), le sue Favole della Genesi (1919-1921) e poi quel Sole a picco (1929) riportano con la poetica del viaggio ciò che Titta Rosa ha chiamato "sapienza antica".
    Tutto ha il sapore delle radici. Il senso dell’appartenenza alla Patria è un radicamento forte. Perché per Cardarelli radici significa appunto radicamento. La storia che si trasforma in memoria è un altro tassello di questo radicamento in una “passeggiata” tra i simboli che lo catturano. Il tema dell’amicizia e dell’identità è un progetto esistenziale ed etico che si raccoglie tra i segni del mito e del rito (si pensi, a tal proposito, alla poesia intitolata “Camicia nera” da Poesie disperse, anche se il linguaggio e i toni sono aridi e poco lirici ma sul piano letterario e linguistico, al di là del contenuto che resta, è una “prova poetica”).

    (Cardarelli in un caffè di via Veneto a roma, assieme a Vincenzo Talarico, Giuseppe Ungaretti e altri scrittori)

    E poi le parole hanno una bellezza non tanto solare ma piuttosto lunare. La luna, in Cardarelli, è la metafora della luce che ha toni scuri e nella sua luce c’è l’assorbimento del tempo antelucano, del sole che è stato (“saluto nel sol d’estate/la forza dei giorni più uguali”), dei meriggi (quei meriggi estivi?), dei tramonti (quel penetrare l’autunno e l’ottobre?), delle stagioni che salutano (“Benvenuta estate./Alla tua decisa maturità/m’affido”).
    E il sole è nella luna. La luna come melanconia e strappo del tempo lungo i giorni che sembrano coriandoli appesi alle età del vivere. Ma cosa è la poesia per Cardarelli? In una sua sottolineatura ha cesellato: “La mia lirica (attenti alle pause e alle distanze) non suppone che sintesi. La luce senza colore, esistenza senza attributo, inni senza interiezioni, impassibilità e lontananza, ordini e non figure, ecco quel che vi posso dare”.
    L’essenza nell’intreccio dell’esistenza del dolore e della consapevolezza. Ma anche della meditazione sul viaggio che si fa tempo e sul tempo che è viaggio. In quel suo riscoprire il senso dell’orizzonte delle origini, la parola non è una cronaca ma una metafisica che si aggrappa all’anima e la poesia che non si rappresenta mai è soltanto il “racconto” o la recita lieve della testimonianza di una spiritualità nel paesaggio stesso dell’anima.

    Edited by pierpaolo serarcangeli - 29/8/2016, 14:35
     
    Top
    .
  2.  
    .
    Avatar

    Advanced Member

    Group
    Administrator
    Posts
    1,231
    Location
    ROMA

    Status
    Offline
    up di sistema
     
    Top
    .
1 replies since 23/6/2016, 17:16   290 views
  Share  
.