Articoli della Direzione (pag. 3): letteratura - storia - critica - autori - novità

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    Gli altri articoli sono a pag. 1 e a pag. 2 (vedi indice generale)

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    RODOLFO VALENTINO, POETA OLTRE L'ATTORE
    (di Pierfranco Bruni)

    L’amore, la passione, il sentimento. Sono tre caratteristiche vitali non solo nell’esistenza ma anche nella poesia di Rodolfo Valentino.
    Poesie. L’amore, la passione e il sentimento. Sogni ad occhi aperti(Newton Compton Editori). Anche poeta. Certamente. Un poeta che ha saputo legare le radici mediterranee con la civiltà americana. Le rimembranze sono i suoni di una conchiglia nel tempo dei ricordi. “Un ricordo d’infanzia,/Una piccola, fragile cosa./Evocata/Dalle piume di un’ala colorata/Sulla tela/Della mia mente sfinita./Che cresce,/Dolce figura del passato/E vedo,/Te! Giunta alla suprema/Perfezione dell’anima,/Il tenue ricordo custodito/E’ giunto alfine/Al suo traguardo”.
    Rodolfo Valentino, il mito del cinema che è espressione di sguardi, di modelli gestuali, di assonanze liriche in cui la danza e le movenze del corpo sono modelli espressivi. Il simbolo che ha proiettato la cultura estetica della gestualità nel sogno dell’immagine. Il suo immaginario continua a vivere in un rapporto che è singolare tra cinema e letteratura e linguaggio poetico. I sogni sono un intreccio tra il suo apparire e il suo essere. Quei “sogni ad occhi aperti” sono un viatico nelle età del suo vivere. Del suo breve vissuto. E nei sogni ondeggiano sempre le ombre. Quelle “Ombre – grigio simbolo di una fede spezzata”.
    Che cinema avremmo avuto senza letteratura o meglio che cinema ci sarebbe stato se la letteratura non fosse entrata nella celluloide? Questo è uno dei quesiti importanti ai quali bisognerebbe trovare una sistemazione critica non solo dal punto di vista scientifico ma anche letterario. Ebbene, Rodolfo Valentino che non è solo il mito della celluloide o del belletto proiettato attraverso le immagini, rappresenta un trattato di unione tra la proiezione delle immagini e la parola. Non bisogna dimenticare che Valentino è l’attore non solo de “I quattro cavalieri dell’Apocalisse” del 1921, in cui il fascino latino è ben rappresentato o di “Sangue e Arena” del 1922 o ancora de “Il figlio dello sceicco” precedentemente.
    È l’attore che ha portato ad una chiave di lettura Balzac e Dumas figlio. Infatti, è stato l’attore de “La commedia umana” tratto dal romanzo “Eugenié Grandet” di Balzac. Ed è stato il protagonista maschile del film “Camille” di sua produzione, tratto dal testo di Dumas figlio., e de “La signora delle camelie”. Quindi il Rodolfo Valentino mito dell’immagine dell’eros, dell’ambiguità della bellezza, del fascino esoterico, è un personaggio vissuto dentro il rapporto tra cinema e letteratura. Senza mai dimenticare l’incontro con la poesia. Rodolfo Valentino ha scritto poesie. Versi nei quali si lasciano ascoltare le malinconie e i suoni di una giovinezza ma anche gli echi di una profonda malinconia. La malinconia dell’essere e del tempo. E’ proprio vero che la giovinezza si misura sempre con il tempo. Ed è proprio vero che “Valentino possedeva una forte inclinazione verso la poesia e la condizione esistenziale del poeta”. Così scrive Paolo Orlandelli.
    Rodolfo Valentino nato, appunto, a Castellaneta il 6 maggio 1895 e muore il 23 agosto del 1926 a New York. Lascia la sua città nel 1913. Uno dei suoi primi film risale al 1918. Sostanzialmente il percorso di questo attore poeta (si perché anche di poeta si tratta in quanto ha lasciato una bella raccolta di versi che si legge come un racconto lirico di un pensiero estetico rivolto alla bellezza, alla memoria, e al tempo) va da quella cultura ben radicata nella Puglia mediterranea (Castellaneta è centro di cultura mediterranea con la sua storia territoriale e geografica e marina) sino a quel grande mare che è l’Oceano. Rappresenta in altri termini il percorso di una mediterraneità all’interno di una America ben profondamente occidentalizzata e italianizzata. Ma il mito greco di Valentino è un mito esoterico, è un mito in cui le muse e le dee sono elementi sentimentali ben radicati nell’essere mediterraneo.
    Nella presentazione di un libro di Guglielmi Morone e di Miredi dedicato a Valentino, Giuseppe Conte nella introduzione sottolinea: “Valentino, arrivato in America da una terra che è dirimpetto alla Grecia, trasforma il suo Pan in Penna Nera, scegliendolo come spirito guida, per rientrare, forse, in quella dimensione dell’essere in cui ciascuno sente in sé l’intera energia dell’Universo”. Una chiave di lettura estetizzante che ripropone il mito tragico dell’assenza-presenza di un tempo perduto che segna tracciati di morte e di vita. È come dire nel pathos di una malinconia generale che Eros e Thanatos non si consumano ma si intrecciano. Questo personaggio mito che sembra uscire da uno dei “sette colori” di Robert Brasillach resta nel vento di una giovinezza mai usurata perché per chi muore giovane la morte non esiste in quanto è il tempo che la uccide e non viceversa. Proprio come nel racconto della immortalità ellenica tra le muse e le dee. Non si scende nel gorgo muto caro ad un’altra giovinezza troncata come Cesare Pavese ma si resta nell’armonia disarmonia di un tempo che non smette di raccontarsi.
    E il cinema questa macchina delle finzioni e delle fantasia, non è un trucco ma è come se fosse un fantasma che sblocca l’istante. Il cinema ha bloccato l’istante di Valentino e ce lo ripresenta costantemente nella sua bellezza, nella sua apparenza mitico temporale. Se dovessimo penetrare queste storie che vivono dentro il rapporto tra cinema e tempo non si potrebbe non ripensare o non riconsiderare la figura di Rodolfo Valentino nella sua straordinaria esuberanza accanto a quella di Marylin Monroe pure a distanza di decenni. Ma con Valentino eravamo al cinema iniziale , al pre - cinema, dove la parola era lo sguardo, il gesto, il corpo e tutto questo insieme era comunicazione. In fondo il cinema che si racconta con la sua critica con la sua estetica trova in Rodolfo Valentino quel protagonista al di là di ogni recita. Resta il fatto, comunque, che in quegli anni cruciali l’attore aveva saputo ben impersonare quelle maschere pirandelliane e dannunziane che successivamente sono stati i riferimenti per un cinema che superava l’ambiente e la realtà a conferire alla sensualità e alla bellezza il racconto più profondo. Credo che la figura di Rodolfo Valentino vada rivalutata proprio in virtù di queste motivazioni.
    Un attore è un personaggio di trasporto non solo in termini di fisicità ma anche sul piano culturale. Quei suoi film sono il portato storico di una cinematografia che ha condizionato generazioni ma nello stesso tempo sono l’esperienza di un cinema che non può, soprattutto in quegli anni, senza un confronto reale con la costruzione dei miti e con un dialogo che può nascere soltanto dai “paesaggi” della letteratura.
    Valentino tra forme e fantasie, un mito che continua e che resta in quell’incontro americano che tanto deve alla cultura mediterranea. Di questo si è discusso a Castellaneta davanti a un folto pubblico. Città mai dimenticata da Valentino perché è madre-radice nella quale la partenza ha un senso se resta nel cuore quel sentimento di identità che ci riporta sempre alla dimensione del ritorno. D’altronde anche le sue poesie portano questa matrice. L’amore resta, comunque, al centro di una ispirazione che è attraversata da una costante malinconia. Così: “Tu sei la Storia dell’Amore e la sua Giustificazione./Il Simbolo della Devozione”.
    Un RodolfoValentino non solo celluloide ma anche Pathos nella grecità delle muse che non vanno perdute. La tensione lirica, le emozioni, le passioni, le dediche affidate ai suoi versi sono segni tangibili di un processo non solo legato al cinema ma alla parola come elemento profondamente lirico. Il simbolico che ha una ombratura di ellenico: “O dolce rosa/Nel cui calice riposa/Il cuore del mio vero amore,/Non si chinarono gli déi a benedirti/Dall’alto dei cieli?/E a posare sulle tue labbra vermiglie/Una uguale copia di rubini./Fu lì che trovai/Gioiello raro/Il fiore del tuo cuore”. Dimensioni culturali che si incontrano in nome della parola e dell’immagine. I simboli non hanno schemi. La poesia è libertà d’animo. I versi di Rodolfo Valentino lo testimoniano.
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    CARLOS CASTANEDA E ANTROPOLOGIA DEL MISTERO
    (di Pierfranco Bruni)

    Il mondo sciamano è il mondo della Illuminazione e del Pensiero. Si viaggia nel Silenzio e nella Parola. Dovremmo porci sempre in ascolto. La magia e gli archetipi sono il senso dei viaggi nel mistero. Il mondo sciamanico non è un archetipo. È piuttosto una alchimia che ha il “potere” dei silenzi. Bisogna avere pazienza. Molta pazienza per non essere fregati dalla impazienza. Questo non ha nulla a che fare con la tolleranza. Pazienza e tolleranza non sono lo stesso cammino.
    Bisogna saper camminare lungo le tracce della pazienza per trovare il tempo impareggiabile. Non dimenticando e ricordando comunque di dimenticare. C’era una volta un tempo in cui la memoria era soltanto sogno. E il sogno si colorava di fantasie lungo i viaggi dell’essenza della vita. Il silenzio era potere. Il potere del silenzio era una arcana energia dello spirito.
    Nell’isola di Carlos Castaneda (in origine Carlos César Salvador Aranha Castaneda, Cajamarca, 25 dicembre 1925 - Los Angeles, 27 aprile 1998) la magia e il mito sono richiami ed echi che ci portano nella lontananza del tempo - memoria. Ritorna con noi spesso. Spesso si fa silenzio.
    C’era una volta la memoria, che si sposava con il mistero e l’isola della metafora era l’isola dei segreti, dei segreti velati e poi chiariti. La magia e il mito ridisegnavano i luoghi di questo mistero.
    L’isola del Tonal di Castaneda (Rizzoli, 1997) è un intreccio di sfere la cui cultura diventa sapere dei popoli. E i popoli si impossessano di questo sapere filtrando il tempo attraverso la nostalgia. I dialoghi tra don Juan con don Genaro aprono le finestre al vento della memoria.
    Si legge: “Il mondo non si offre a noi direttamente; di mezzo vi è la descrizione del mondo. Propriamente, quindi, noi siamo sempre a un passo di distanza e la nostra esperienza del mondo è sempre un ricordo dell’esperienza. Noi siamo perennemente in atto di ricordare l’istante che è appena accaduto, appena trascorso. Noi ricordiamo, ricordiamo, ricordiamo”.
    È un andare tra i ricordi. Ma la distinzione tra il ricordare e afferrare la memoria è presente. Nel tempo i ricordi si frantumano e si raccolgono sulla tastiera della memoria. Nella memoria c’è il sapere e c’è il potere. Sentire, sognare e vedere. Sono i compiti anche della farfalla notturna che si metaforizza con il suo volo e con la sua presenza nel mondo. Il mondo e la memoria. Castaneda filtra queste due dimensioni che sono delle sfere. La circolarità del tempo è un ritornare costantemente, al punto di partenza. Nel potere del silenzio c’è la circolarità del tempo - memoria. Il sognare. O il viaggiare. Già, appunto il viaggiare è il tema dominante della ricerca di Castaneda. Proprio ne L’isola di Tonal il viaggio è la trasparenza dell’isola. L’isola della partenza ma anche l’isola del ritorno. Dove i riti magici si compiono, si offrono, si avvertono. Il mondo degli stregoni non è soltanto il mondo della magia. È il mondo del sogno.
    Si legge in Il potere del silenzio. Arcane energie dello spirito (Rizzoli, 2001): “Il nagual Elìas aveva grande rispetto per l’energia sessuale disse don Juan. Riteneva che ci fosse stata perché la usassimo nel segno. Credeva che il segno fosse caduto in disuso perché poteva sconvolgere il precario equilibrio mentale delle persone sensibili”.
    È un itinerario lungo ma circolare. Per esempio così in Il secondo anello del potere (Rizzoli, 2001), in Il dono dell’aquila (Rizzoli, 1985), in L’arte di sognare (Rizzoli, 2000). Il sapere e il potere sono, comunque, incarnate dalla metafora della farfalla notturna che troviamo ne L’isola del Tonal. La sottolineatura è singolare oltre ad essere bella.
    “Il sapere e il potere. I sapienti hanno l’uno e l’altro. E tuttavia nessuno di loro potrebbe dire come riuscì ad averli: potranno solo dire che li hanno ottenuti agendo come guerrieri, e che ad un dato momento tutto è cambiato”. I guerrieri della notte si incontrano con la farfalla. (copertina di "Time" del marzo 1973 dedicata a Castaneda)
    E poi: “Un guerriero deve essere calmo e padrone di sé, senza perdere mai il controllo”. Gli stregoni e i guerrieri. Ma è Castaneda che incide un solco con queste parole: “Se volete esprimervi in modo preciso secondo gli stregoni, ma in modo molto ridicolo secondo il vostro linguaggio, potete dire che stanotte avevate un appuntamento con una farfalla notturna. Il sapere è una farfalla notturna”.
    Le metafore sono anch’esse circolari perché camminano nel cuore del tempo e si fanno voce dentro l’anima del guerriero. Ma queste metafore chiedono allo stregone di mobilitarsi nel linguaggio. Alla fine il tempo è sempre il mistero, che si imprigiona nella memoria e si fa destino.
    Appunto, il destino. L’incontro tra l’Occidente e l’Oriente è anche qui la trasparenza del potere del silenzio. E questo potere senza la forza e la consapevolezza del destino è follia. Ma Castaneda si rivela nell’isola, si rivela nel silenzio, si rivela nel sogno.
    Tre percorsi la cui luce primordiale vive non solo nel passato ma nella richiesta del presente. Il futuro è già memoria. La conoscenza è destino. Il silenzio interiore è la civiltà che si fa memoria. Siamo impastati di civiltà. Sepolte. Ma bisogna avere il coraggio di tradire il tradimento e cercare di restare fedeli al cuore. Bisogna non dimenticare perché occorre ricordare di dimenticare. L’antropologia del mistero è il cuore dei popoli che si mettono in ascolto. Mettersi in ascolto è dare un senso al cammino. Vivendo nella magia il simbolo sempre si dichiara.
    (Fonte: controcomunebuonsenso.blogspot.it)
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    "MEMENTO AUDERE SEMPER"
    D’ANNUNZIO, LA PATRIA, LA GUERRA E IL SUO "NOTTURNO"
    (di Pierfranco Bruni)

    Il 1916 per Gabriele D’Annunzio è un anno importante. Si apre a ventaglio una dialettica su: Letteratura in Trincea. È uno dei temi fondamentali che, all’interno di una dialettica tra impegno, interventismo e irredentismo, “smobilita” il pensiero tra storia e linguaggi nei processi del Novecento. Nel dibattito, che non si è mai assopito nel corso di questi anni, su letteratura e Grande Guerra, Gabriele D’Annunzio resta, comunque, un protagonista tra pensiero e azione. Infatti nella tragedia della Prima guerra mondiale D’Annunzio trova uno spirito profondamente nobile. Lo trova nei momenti dell’interventismo, ma anche successivamente sino al sorgere del fascismo stesso. Ma vive con intensità quegli anni tanto che fu artefice di numerosi discorsi il cui punto nevralgico era il nazionalismo. Volle partecipare alla guerra da protagonista. **
    Per le autorità militari, invece, D’Annunzio doveva rappresentare un simbolo, un emblema, una bandiera, considerata soprattutto la sua età. Nel 1915 il poeta aveva già 52 anni. D’Annunzio non accetta questa “immaginetta” e chiede addirittura di essere impegnato come soldato. ‘Diari di guerra 1914 – 1918‘ di D’Annunzio costituiscono un punto di riferimento non solo del rapporto tra il Vate e la trincea, ma si scava in una esistenza di letterato tra il pensiero, il pensare e il combattere.
    Presidente del Consiglio dei Ministri era Antonio Salandra e a lui D’Annunzio il 29 luglio del 1915 scrive una lettera, nella quale si legge: “Io non solo un letterato dello stampo antico, in papalina e pantofole. Io sono un soldato. Ho voluto essere un soldato, non per stare al caffè o a mensa, ma per fare semplicemente quel che fanno i soldati. Ho una situazione militare in perfetta regola. Non soltanto ho la facoltà, ma ho l’obbligo di combattere”.
    In questa cesellatura c’è tutto il suo spirito, la sua esuberanza, il suo protagonismo ma anche il suo aspetto profondamente “guerriero”, i cui ideali avevano quella caratterizzazione, appunto, superomistica la cui concezione estetizzante veniva applicata completamente all’evento bellico. La guerra per D’Annunzio era un fatto esaltante ma anche un gesto che doveva portare al rinnovamento attraverso un impegno civile e spirituale.
    Era il poeta soldato. Il poeta della contemplazione e del “piacere”, il poeta del bello e dell’alcionico, il poeta sensuale e greco diventava così il poeta dell’azione. La guerra era, per D’Annunzio, azione. Lo dimostra, d’altronde, la lettera indirizzata ad Antonio Salandra.
    Durante un’azione D’Annunzio perse un occhio. Era il 16 gennaio del 1916. Durante un’operazione di volo alla volta di Zara ebbe un incidente. La tempia destra urtò violentemente contro la mitragliatrice di prua. Quel colpo gli causò dei gravi disturbi tanto che fu costretto ad una pausa di riposo e a restare bendato. Aveva perso la vista all’occhio destro. Ma questo non fermò la sua attività militare. Riprese in pieno la sua attività e anche a volare.
    C’è da dire che D’Annunzio è stato dentro le cause dell’interventismo della Prima guerra mondiale (la sua battaglia per un’idea di nazionalismo resta una testimonianza emblematica). Fu, infatti, proprio la grande guerra a riempirlo di nuova vitalità. Infatti oltre ad essere presente con discorsi che invitavano gli italiani ad entrare in guerra a guerra scoppiata si arruola come Tenente dei Lancieri di Novara.
    Nel 1916 venne, come si è detto, addirittura ferito ad un occhio. Questa esperienza lo portò delle pagine importati alle quali diede il titolo di ‘Notturno’ (una vera e propria metafora che testimoniava il suo stato di salute con la vista). Subito dopo questo episodio D’Annunzio si contraddistinse per la “beffa di Buccari” nel 1918 e il volo su Vienna dello stesso anno. Cosa è stata, in realtà, la beffa di Buccari? La notte tra il 10 e l’11 febbraio del 1918, insieme ad altri 20 compagni, portò a termine un azione di siluramento di un piroscafo austriaco ancorato nelle vicinanze di Fiume, in una baia denominata Buccari. Il comandante di questa azione era Costanzo Ciano.
    (Luigi Rizzo, D'Annunzio e Ciano fotografati subito dopo l'impresa di Buccari)
    Il volo su Vienna, invece, è stato un atto dimostrativo importante. Il 9 agosto del 1918 volò su Vienna ammantando la città di manifestini che recavano dei messaggi. Un atto dimostrativo di coraggio che rese popolare la figura militare di D’Annunzio.
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    (D'annunzio e Natale Palli, che pilotava; D'Annunzio, infatti, contrariamente a quel che comunemente si crede, non era un pilota. A destra l'aereo Ansaldo-SVA, conservato al Vittoriale)
    Egli è stato fautore delle istanze contro la “vittoria mutilata” alla fine della guerra stessa e condusse quella “presa” di Fiume come un atto non solo militare ma intriso di forti connotazioni ideologiche, spirituali e nazionalistiche. D’Annunzio rivendicava all’Italia, dopo la fine della guerra, il diritto a tutto l’Adriatico sino a Valona. In quel contesto numerosi furono le strategie diplomatiche per raggiungere accordi su questo problema. Restava in piedi una questione irrisolta: Fiume. A capo di un piccolo esercito D’Annunzio occupò, il 12 settembre del 1919, in nome dell’Italia, (pur contro gli accordi raggiunti dai Governi), la città di Fiume. La si ricorda come l’impresa fiumana.
    Qual era lo scopo di tale impresa? Era principalmente quello di creare, nell’opinione pubblica, una sollevazione contro i patti della Conferenza di Parigi. Nel settembre del 1920 venne proclamata dai legionari di D’Annunzio l’indipendenza di Fiume e nella stessa occasione venne emanato un ‘Ordinamento dello Stato libero di Fiume’ (meglio conosciuto come la ‘Carta del Carnaro’). L’occupazione della città e la cosiddetta ‘Reggenza del Carnaro’ non risolsero, comunque, il problema. Man mano D’Annunzio venne lasciato solo nonostante gli appoggi economici di molti industriali di quell’area geografica. La questione si risolse nel dicembre del 1920 quando il Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, in virtù del Trattato di Rapallo, ordinò di soffocare nel sangue l’impresa dannunziana. Infatti, Fiume venne bombardata e i legionari lasciarono ben presto la città.
    D’Annunzio è stato, sostanzialmente, un precursore di quelle istanze di cui si approprierà Benito Mussolini con la nascita del Fascismo (come Partito nel 1919 e successivamente con la Marcia su Roma nel 1922). Dopo l’impresa fiumana D’Annunzio era ormai stanco della vita politica e delle azioni militari. Aveva, comunque, creato le basi teoriche sulle quali il Fascismo iniziale era nato. L’impegno diretto politico, nonostante qualche altro tentativo, non lo stimolava più. La stessa Marcia su Roma venne accettata con quasi indifferenza. Rinunciò spontaneamente a qualsiasi altra azione anche durante i primi anni del Regime. Su Mussolini, nonostante la loro amicizia, nutriva anche molte diffidenze pur condividendo alcune impostazioni ideali. Ma si allontanò completamente dalla politica e il Fascismo lo rispettò proprio per la sua indifferenza e il suo distacco dalla vita del Regime.
    D’Annunzio, proprio negli ultimi anni della sua vita, aveva invitato Mussolini a restare fedele all’amicizia con la Francia. In una lettera di D’annunzio al Duce dell’11 aprile del 1935 si legge. «Tu sai – se ti ricordi d’altri nostri colloqui arcani – quanto mi sia cara la nostra rinnovellata o principiata amicizia con la Francia». Mentre non condivideva la posizione della Germania e non condivideva un accordo di Mussolini con Hitler, il quale, quest’ultimo, era definito, dal poeta, l’ “Attila imbianchino”.
    Tre momenti (l’interventismo, la battaglia per la vittoria mutilata e il nazionalismo, la nascita del Fascismo), dunque, che lasceranno un segno in quell’Italia che si prepara alla guerra e successivamente al Fascismo ma da scrittore e da intellettuale non misura, in termini politici, le conseguenze. Ecco perché resta, fino in fondo, un poeta. Un poeta con la sua quotidiana tragedia del vivere che trasporterà completamente nei suoi scritti la sua passione, la sua intemperanza e quel bisogno di sfuggire al tempo. Non bisogna dimenticare un contesto storico ben preciso. Dal 1916 al 1920 sono gli anni della preparazione politica e militare. Sono gli anni che preparano una ricca discussione sul nazionalismo, sul sindacalismo, sul socialismo, sul fascismo. Da questa discussioni si innerva il D’Annunzio comandante, il D’Annunzio che marcerà su Fiume.
    Non c’è dubbio che il D’Annunzio di Fiume è un D’Annunzio anarchico ma anche profondamente nazionalista. La sua rivolta fiumana è una manifestazione di difesa del nazionalismo. Nella sua marcia e nei suoi legionari c’è la testimonianza della guerra e con le conseguenze del dopoguerra e c’è soprattutto la preparazione al fascismo che troverà in Fiume una prima prova. C’è da dire che Gabriele D’Annunzio trasforma la retorica in estetica. I suoi canti, i suoi versi, il suo atteggiarsi ci portano ad una cultura del movimento della parola intesa anche come estetica della forma. L’idea di Patria in D’Annunzio resta sempre centrale. Un’idea fondante che trova in un motto antico innovato l’essere del pensare la vita come un combattimento sempre. La Grande Guerra è anche quel suo MEMENTO AUDERE SEMPER.
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    IL GATTOPARDO E TOMASI DI LAMPEDUSA
    La cultura letteraria raggiunge l'animo popolare
    (di Pierfranco Bruni)

    Giuseppe Tomasi di Lampedusa nasce a Palermo il 23 dicembre 1896 e muore Roma il 23 luglio 1957. Nel 1958 veniva pubblicato Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Un romanzo che secondo Carlo Bo “rappresenta un miracolo: quello di un libro ricco di cultura letteraria che riesce a raggiungere l’animo popolare”.
    Rifiutato da Elio Vittorini. Sia dall’Einaudi che da Mondatori. Trova ospitalità dalla Feltrinelli. Ma chi ha creduto immediatamente nelle pagine di Tomasi di Lampedusa è stato Giorgio Bassani. La prima tiratura del libro è di tremila copie. La seconda è di quattromila, sempre nel 1958. Il resto è nella storia di questo romanzo. Nel 1959 vince il “Premio Strega”. A presentarlo sono Ignazio Silone e Geno Pampaloni. Oggi Asor Rosa lo ignora nella letteratura italiana dell’Einaudi.
    Intorno alla fine del 1954 Tomasi di Lampedusa comincia a stendere le prime pagine. La metafora della memoria lo cattura. Nei luoghi della mia prima infanzia incide: “Quando ci si trova nel declino della vita è imperativo cercar di raccogliere il più possibile delle sensazioni che hanno attraversato questo nostro organismo. A pochi riuscirà di fare così un capolavoro (Rousseau, Stendhal, Proust), ma a tutti dovrebbe essere possibile preservare in tal modo qualcosa che senza questo lieve sforzo andrebbe perduto”.
    Il messaggio è chiaro. I luoghi, i personaggi, i dialoghi, il pensare sono già consapevolezza di un trapasso tra vita e letteratura. I ricordi diventano l’invenzione lungo il tragitto narrante. Ci si impossessa di un parametro fortemente esistenziale e il “rifiuto della storia”, per parafrasare un saggio di Gian Paolo Marchi dedicato a Verga e il rifiuto della storia, è un ritmo che cesella la psicologia dei personaggi più che la rappresentazione e la chiusura di un tempo cronologico, che non può conoscere l’essenza della memoria come fatto rivelatore. La rivelazione delle immagini stesse è la trasformazione della storia come susseguirsi di atti cronologici in tasselli di una memoria che coinvolge il tempo come percezione e l’avventura dei personaggi come segni di una indelebile spiritualità. Si legge Il Gattopardo nel dialogo costante tra l’io narrante e il narrato. Il Principe e lo scrittore sono la voce e il destino.
    I tre contesti che caratterizzano Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e formano il percorso narrante anche sul piano delle finalizzazioni politiche sono il 1860, il 1885 e il 1910.

    Ma questo romanzo si presta ad una chiave di lettura che non è soltanto storica, politica, ideologica. Non è soltanto un romanzo che pone all’attenzione la questione incompiuta di quella nascita di unità nazionale che viene disegnata e sottolineata nel corso i tutta l’impostazione tematica.
    Giuseppe Tomasi di Lampedusa è, comunque, uno scrittore che fa i conti costantemente con la storia, ma in questa storia c’è una prevalenza tridimensionale della memoria. Vediamo come.
    I fatti vengono raccontati attraverso una rivisitazione nella quale prevale energicamente il ricordo. La storia, pur fissando delle fasi cronologiche, si serve del ricordo. Quindi viene meno la storia come momento di pianificazione della ragione. Nel ricordo prevale il racconto come sentimento. O meglio: negli avvenimenti che si intrecciano la forza trainante non è la logica della giustificazione storica ma è il sentimento come coscienza popolare che prende il sopravvento. Questo è già il primo aspetto. Ne subentra un secondo. La storia come ricordo non avrebbe senso se nei personaggi, che si agitano sullo scenario, mancasse l’avventura del destino. Ogni personaggio recita la sua avventura perché recita un’appartenenza d un destino. È in questo destino che si intravede l’incontro tra la reinterpretazione del passato e la tragedia del futuro. Il caso emblematico è quello del Principe Fabrizio. Nel paesaggio storico di un destino epocale avvengono due ulteriori trapassi. Quello che coinvolge totalmente la fine di una civiltà e l’inizio di un nuovo modello. Quello che segna la fine di una nobiltà e l’inizio di una nuova aristocrazia o meglio di una nuova borghesia (il caso di Sedara). In questo secondo aspetto c’è un coinvolgimento che avrà i suoi effetti sia in termini storici che sociali (Tancredi e Angelica rappresentano la nuova visione del mondo). Nel terzo aspetto, invece, è da sottolineare la presenza, non singolare ma assidua, del paesaggio siciliano. E la Sicilia è sostanzialmente parte integrante di tutta l’avventura che si compie nel romanzo e può avere una spiegazione sia su un versante prettamente storico sia su un versante in cui letteratura e appartenenza al luogo costituiscono in questo caso specifico una valenza mitica. Il paesaggio della Sicilia in tutte le sue fasi storiche menzionate nel romanzo rappresenta l’humus esistenziale e culturale.
    La Sicilia come metafora, ma anche come spiegazione di una dimensione storica e politica. La tragedia di una civiltà è il senso di decadenza, che si ascolta dalle parole che Don Fabrizio dice a Chevalley.
    Si tratta di una sottolineatura importante. C’è all’interno una spiegazione storica e culturale. È la spiegazione di tutto e tutti vi trovano il loro intreccio tra destino e memoria, appunto.
    La Sicilia e i Siciliani. È un richiamo che spesso ritorna tra le parole di Don Fabrizio. Un richiamo che suona come metafora ma anche come interpretazione di un profondo processo culturale. La tristezza e il suono di tragedia si avvertono, non tanto perché si è alla fine di un ciclo, quando ci si rende conto di quella coscientizzazione epocale, che coinvolge tutto il popolo meridionale. La tragedia e l’ironia del Principe sono già di per sé l’indicazione di una sofferenza che è la sofferenza di una antica sopportazione di tutto un popolo.
    Indubbiamente, la figura di Don Fabrizio campeggia e traccia percorsi all’interno del romanzo. Il Gattopardo d’altronde non è un romanzo che ha una sua specificità narrativa. È un romanzo di ritratti e di fissazioni di immagini. Si pensi anche al capitolo dedicato a Padre Pirrone o all’ultima parte. Si pensi al capitolo tutto offerto alla morte del Principe.
    Il corteggiare la morte è avere presente la sensualità della vita. La morte del Principe annuncia la fine di tutto ma è oltre la passionalità per la vita. Il capitolo dedicato al ballo è un preavviso di fine ma è anche l’angoscia di una perduta sensualità. Vi resta l’ironia. Quel capitolo dedicato al ballo è il tocco magico dell’eros ma è anche una marcata sottolineatura ironica.
    La morte come bellezza. Ma forse come cominciamento di una nuova avventura. Il teatro e la recita sono nel ballo. In quel ballo in cui Don Fabrizio misura se stesso respirando sui capelli di Angelica e assaggiando la gelosia di Tancredi. La giovinezza ferita. Il tempo lacerato. La storia che riprende il suo corso. Davanti ad un mondo in decadenza la morte è l’unica risoluzione perché è, giustamente, oltre la realtà. E Don Fabrizio è conscio di ciò. Misura se stesso rappresentandosi in quel ballo con Angelica. L’“aroma di pelle giovane e liscia di Angelica è appunto la misura del tempo. Il ballo che alla fine resta anch’esso una metafora sprigiona un ‘influsso sensuale’”. È la vita che recita la sua eredità tra l’amore dei due giovani e la sopportazione della maschera. Il Principe indossa una maschera. Viene lacerato dal destino. L’unica cosa che lo rende vitale è la memoria. Questa sua memoria è in una attesa che lo accompagna verso appuntamenti. Chiede un“appuntamento meno effimero”. Così anche la morte diventa interiorizzazione della metafora.
    Proust è stato importante per Tomasi di Lampedusa. Oltretutto perché il tempo perduto diventa nei luoghi, nei sentieri e nella coscienza della memoria tempo ritrovato. E a sancire questo rapporto o questo protocollo esistenziale è appunto la scrittura, ovvero la letteratura. Il ricordo è i ricordi e questi sono la memoria e la memoria non è soltanto nel tempo ma è il Tempo. Il passato è la coscienza, dunque, che ci permette di rivivere il perduto nella metafora della vita.
    In Tomasi di Lampedusa non ci sono soltanto sensazioni che danno voce alla scrittura. Ci sono perdite reali. Come la casa. Una casa distrutta è la casa distrutta. E quella casa era l’infanzia. Una stagione del tempo che si è dilatata nel tempo – memoria. La casa – infanzia è la scomparsa non di un ricordo, ma di una storia che non è più possibile reperirla se non attraverso la visione – simbolo di un ancoraggio alla letteratura – conchiglia. Cioè alla letteratura che custodisce ciò che Corrado Alvaro chiamava “mondo sommerso”
    (palazzo Filangieri: nel romanzo è la dimora di Donnafugata)
    In alcune lettere scritte all’amico Guido Lajolo che era andato a vivere in Brasile (che il settimanale L’Espresso” ha pubblicato a cura di Giuseppe Carrieri l’8 gennaio del 1984) alla data del 31 marzo 1956, Tomasi di Lampedusa, annota : “Il protagonista è il Principe di Salina, tenue travestimento del Principe di Lampedusa mio bisnonno. E gli amici che lo hanno letto dicono che il Principe di Salina rassomiglia maledettamente a me stesso. (…) Vi sono molti ricordi personali miei e la descrizione di alcuni ambienti è assolutamente autentica…”. Nella lettera del 7 giugno si trova sottolineato : “ … il protagonista sono i, in fondo, io stesso e il personaggio chiamato Tancredi è il mio figlio adottivo”. Nella successiva del 2 gennaio 1957 si può leggere : “Non vorrei però che tu credessi che è un romanzo storico! Non si vedono né Garibaldi né altri: l’ambiente solo è del 1860; il protagonista Don Fabrizio, esprime completamente le mie idee, e Tancredi, suo nipote, è il ritratto di Giò in quanto all’aspetto ed alle maniere; per ciò che riguarda il morale Giò è, per fortuna, assai meglio di lui. // In quanto ai ‘Vicerè’ il punto di vista è del tutto differente: il ‘Gattopardo’ è l’aristocrazia vista dal di dentro senza compiacimenti ma anche senza le intenzioni ribellistiche di De Roberto”.
    È chiara la manifestazione che emerge da questa lettere. Autobiografia, superamento della storia, superamento, in termini critico- letterari, del naturalismo – verismo. È una chiave di lettura significativa perché sposta definitivamente l’attenzione dalla storia ai personaggi, dalla realtà alla memoria. In un ricordo di Gioacchino Lanza Tomasi (il figlio adottivo) apparso su “Tuttolibri” supplemento al quotidiano “La Stampa” si legge: “ Il problema autobiografico del Gattopardo va a mio avviso connesso a quanto rivela nella lettera a Lajulo. Ed abbiamo allora un esempio di autobiografia del lutto particolare…(…) Di qui la costruzione del romanzo di famiglia quale favola personale della propria famiglia, in cui i sogni di desiderio sono liberi di intessere trame di passioni appagate. Nell’opera letteraria si sarebbe attuata l’utopia consentita…(…) Come uomo sapeva di aver risolto nel romanzo il proprio problema esistenziale, sapeva di aver riacquistato attraverso il romanzo una identità che gli appariva per l’innanzi sfuggente”.
    Il sentire della metafora in Tomasi di Lampedusa congiunge il tempo – eros al tempo – morte. Ciò lo si verifica non solo ne Il Gattopardo ma anche in I luoghi della mia prima infanzia e in alcuni Racconti. È Il Gattopardo, comunque che richiama costantemente il tempo – eros intrecciandolo quasi sempre al tempo – morte – memoria.
    Il Gattopardo, tuttora, è un romanzo che potrebbe aprire una vasta discussione che riguarderebbe sì una visione su un Risorgimento letterario. Una letteratura, che si confronta con le indicazioni della storia ma che non può e non deve fare a meno di elementi che superano la stessa relazionalità contestuale per appropriarci di quelle lezioni metaforiche che sono vitali nel corpus del romanzo.
    La storia, il tempo – memoria, i personaggi. Su questo itinerario Tomasi di Lampedusa ha costruito il suo menabò letterario. Ciò che alla fine resta non sono le date, ma la visione decadente di una civiltà, il rapporto tra tempo e morte nel viaggio epocale di quella civiltà che si raffigura nel Principe, la bellezza, l’estasi e l’eros di Angelica che assorbe tutte le movenze simboliche che trovano espressività, appunto, nei luoghi letterari del romanzo.
    La poesia della memoria, la poesia dell’eros, la poesia della morte non sono una maschera, ma sono lo specchio dei personaggi che rivivono l’avventura di un destino nella tragedia comprensione degli avvenimenti.
    Tutto diventa, come in quei ricordi dell’infanzia in cui non esiste più, un “senso cronologico” ma tutto è retto da una visione di segni e di simboli attraverso i quali la storia perde le sue tappe. In cambio c’è una “immediatezza di sensazioni”, che traspare non tanto dal racconto dei fatti quanto dalla centralizzazione dei personaggi.
    Forse anche per questo resta nella tradizione della contemporaneità.

    Edited by pierpaolo serarcangeli - 4/10/2016, 21:23
     
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